24 Feb Un anno difficile da dimenticare
Tratto da Il Mulino di Andrea Ruggeri
È passato un anno dall’inizio della guerra di aggressione della Russia all’Ucraina. C’è chi ha perso tanto, chi tutto. Molti non ci sono più. Le Nazioni Unite riportano – sono dati di gennaio 2023 – settemila civili uccisi e undicimila feriti. È sempre più evidente che l’esercito russo ha compiuto atrocità di massa contro i civili. Otto milioni di ucraini hanno lasciato il loro Paese: quasi una persona su cinque è dovuta fuggire. Il numero dei morti militari è incerto, si parla di 100 mila vittime, sia tra i russi sia tra gli ucraini. Ma anche la statistica è ormai una delle tante vittime della guerra.
Poi ci siamo noi, che siamo rimasti attoniti, spaesati e poco alla volta ci stiamo forse abituando alla guerra. Quella guerra che è arrivata sui nostri schermi, sulle prime pagine dei quotidiani e nei discorsi a tavola con amici e familiari. Abbiamo addomesticato la guerra: sono ormai pochi gli italiani che hanno vissuto direttamente i bombardamenti, la fame e il terrore di un conflitto armato.
Nel corso dei mesi, gran parte delle previsioni si sono rivelate fallimentari: Putin non attaccherà, gli ucraini non ce la faranno, l’Europa rimarrà titubante, gli Stati Uniti si tireranno indietro, la Cina farà la differenza. Predire è cosa rischiosa, capire è cosa complicata. Riflettere con calma, facendo distinzioni, sembra ormai quasi azzardato. I tempi di guerra portano all’esasperazione delle posizioni – o sei nemico o sei amico – e l’incertezza della guerra porta alla (falsa) certezza dell’identità. Chi esercita il dubbio come metodo scientifico – ma anche come caposaldo del pensiero democratico liberale – rischia di essere additato come avversario. Chi vorrebbe ragionare rischia di rinchiudersi nel silenzio, chi sragiona non si pone alcun problema.
C’è chi dice che è la prima guerra in Europa da anni e chi invece ricorda altre violenze e guerre, come quelle nei diversi Paesi che facevano parte della Jugoslavia. C’è anche chi non si era accorto che dal 2014 c’era una guerra nel Donbas o che nel 2008 la Russia ha avuto un ruolo diretto nella guerra della Sud Ossezia, in Georgia. Né che nel 2021 c’erano almeno tante guerre civili quante al tramonto della Guerra fredda. Proprio nel 2021 si concludeva il ventennio disastroso degli Stati Uniti e dei loro alleati in Medioriente, iniziato dopo i vili attacchi terroristici del settembre 2001. I nostri occhi – e, peggio ancora, le teste della maggioranza dei politici – erano più che altro concentrati su questioni di politica interna, non certo sullo scenario internazionale.
Le teste della maggioranza dei nostri politici sono state a lungo concentrate su questioni di politica interna, non certo sullo scenario internazionale
L’anno appena trascorso fa ricordare una citazione erroneamente attribuita a Lenin: “Ci sono decenni in cui non succede nulla e ci sono settimane in cui accadono decenni”. La Nato, che appariva mezza morta – Macron dixit –, sembra riprendersi e ha pubblicato nell’estate 2022 uno nuovo documento intitolato Concetto strategico; la Germania ha cambiato bruscamente rotta sulle spese militari. Vediamo un’Europa più unita sull’appoggio ai rifugiati ucraini e meno divisa sugli affari esteri, mentre i partiti italiani, in particolare nel centrodestra, provano a seppellire un passato filo-putiniano (tranne alcune voci dissenzienti dovute a sincerità o a senilità). Allo stesso tempo abbiamo assistito allo stallo delle Nazioni Unite e del suo Consiglio di sicurezza: tutti siamo toccati dagli effetti nefasti e di lungo raggio della guerra su un’economia globalizzata e si riaffacciano il pericolo e l’ansia di una guerra termonucleare, che ci eravamo illusi appartenessero al passato.
Che cos’è cambiato, o almeno sembra essere cambiato, a livello mondiale? Stiamo assistendo alla crisi di un multilateralismo esteso e inclusivo che aspira a una governance globale, mentre vediamo il rafforzamento di un multilateralismo più ristretto ed esclusivo da parte di alcune coalizioni che agiscono collettivamente per la sicurezza e l’economia. Il multilateralismo sembrava in cattiva salute, e diverse potenze hanno provato a scardinarlo ulteriormente, ma il ruolo della Nato e dell’Unione europea non sembra affatto più marginale rispetto a un anno fa. Le sanzioni economiche pare abbiano rallentano non solo l’economia russa, ma anche quella dei Paesi sanzionatori. Le sanzioni sono una guerra senza vittime dirette, ma presentano un prezzo da pagare per tutti. Sono uno strumento di ciò che può sembrare un ossimoro: la diplomazia coercitiva.
Le sanzioni sono una guerra senza vittime dirette, ma presentano un prezzo da pagare per tutti
Trascorsa la pandemia, stavamo assistendo a una ripresa dell’economia globale. La guerra in Ucraina ha rallentato la ripresa e ha fatto aumentare i prezzi non solo dell’energia, ma anche di tanti altri prodotti, molti dei quali necessari alla produzione agricola, aggravando così anche il rischio di carestie nei Paesi nel Sud del mondo. Il programma mondiale per il cibo delle Nazioni Unite considerava l’Ucraina il granaio delle proprie iniziative alimentari di supporto umanitario: prima della guerra, il grano ucraino sfamava 400 milioni di persone in tutto il mondo.
Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, dove seggono 5 membri permanenti e 10 a rotazione, non è riuscito a evitare i veti incrociati e non è stato in grado di prendere una posizione ferma sulla guerra. Ma l’assenza di quel voto unitario ha dato all’Assemblea generale delle Nazioni Unite la possibilità di richiedere una sessione di emergenza speciale – cosa che non succedeva da 25 anni – e di votare una serie di risoluzioni che, a larga maggioranza, hanno decretato l’azione del regime russo come contraria alla Carta delle Nazione Unite e al diritto internazionale. I Paesi del Sud del mondo stanno gradualmente assumendo un ruolo centrale e proattivo nell’Assemblea: la nuova risoluzione ES-11/5 del febbraio 2023 – dopo aver ribadito la difesa dell’integrità territoriale dell’Ucraina e la necessità di fermare le ostilità – fa un riferimento molto chiaro all’impatto globale della guerra sulla sicurezza alimentare, energetica, finanziaria, ambientale e nucleare.
Infine, a causa della situazione di stallo in cui la guerra in Ucraina ha spinto il Consiglio di sicurezza, molto difficilmente vedremo quest’organo approvare, nel breve futuro, risoluzioni importanti. Sebbene le operazioni di pace delle Nazioni Unite sembra che funzionino – almeno se vogliamo considerare un successo il declino della violenza –, dal 2014 non ne sono state approvate di nuove e, come effetto collaterale della guerra russa in Ucraina, molto difficilmente vedremo i Caschi blu impegnati a breve in nuove missioni.
La Cina mira a conquistare una posizione egemone, ma in questi dodici mesi è stata alquanto tentennante e non di rado ambigua. Ha confermato la cooperazione con la Russia, ma all’Assemblea generale dell’Onu si è astenuta. Ha detto che l’uso di armi atomiche è scenario da evitare a tutti costi, ma recentemente è parsa pronta a riarmare una Russia in difficoltà. Ha annunciato un’iniziativa di pace per la settimana del primo anniversario della guerra, ma intanto preferisce che gli Stati Uniti consumino le proprie energie in Europa, per potere pianificare la propria strategia nel Pacifico e in Africa. Del resto anche la Turchia – che da questa guerra ha sicuramente ottenuto ritorni economici importanti – negli ultimi anni, pur essendo all’interno della Nato, ha fatto dell’ambiguità il proprio tratto caratteristico – si veda il suo ruolo in Siria e in Libia – e oggi sembra giocare nuovamente un suo ruolo come possibile mediatore.
Che cos’è cambiato per l’Europa? Abbiamo visto un maggior coordinamento, soprattutto nell’appoggio ai rifugiati ucraini e nelle sanzioni contro la Russia. La guerra in Ucraina ha parzialmente influenzato la “Bussola strategica”, ossia il documento che pianifica la difesa europea del prossimo futuro, sempre coordinata e dipendente dalla Nato. L’emergenza Ucraina ha armonizzato – almeno per il momento – la cacofonia d’interessi strategici e di difesa che i diversi componenti dell’Ue avevano avuto negli ultimi anni. Ciò è avvenuto, tuttavia, relegando in secondo piano le questioni critiche relative al Mediterraneo. Il Regno Unito, ormai tetragono nella sua condizione post-Brexit e alla cui guida si sono insolitamente succeduti diversi Primi ministri, ha avuto un ruolo di punta nel supporto militare verso l’Ucraina, ma anche nell’addestramento, in territorio britannico, di militari dell’esercito ucraino. Inaspettatamente – probabilmente anche per Putin – due membri dell’Unione europea che si dichiaravano militarmente neutrali hanno iniziato un percorso di adesione alla Nato. La Svezia aveva mantenuto per un lunghissimo periodo la propria posizione di neutralità militare, accettata, invece, dalla Finlandia, obbedendo alle logiche della Guerra fredda. Ora entrambi – sebbene la Turchia potrebbe parzialmente ostacolarne il percorso – si allineeranno militarmente all’interno dell’Alleanza atlantica.
E per l’Italia e gli italiani che cosa è cambiato? Si è ridotta l’ambiguità filo-putiniana dei partiti di centrodestra, la dipendenza energetica si è spostata dalla Russia al continente africano, è aumentata la spesa militare, ma con un limitato dibattito pubblico, e politico, su come investire gli aumenti di bilancio.
Grazie al sondaggio Iai-Laps, possiamo vedere come i cittadini italiani hanno cambiato le loro opinioni sulla politica estera e di sicurezza dal 2017 al 2022. Se nel 2017 la maggioranza degli italiani riteneva che il primo interesse nazionale fosse controllare i flussi d’immigrazione (51% nel 2017, 14% nel 2022), nel 2022 il primo interesse nazionale è divenuto garantirsi rifornimenti energetici (53% nel 2022, 7% nel 2017). Se dieci anni fa meno di un italiano su cinque (18%) credeva che l’influenza dell’Italia in politica internazionale fosse molta o abbastanza, nel 2022 siamo giunti a quasi un italiano su tre (31%). In termini di alleanze, si è verificato un forte incremento a favore di una linea “politica autonoma da entrambi” – Stati Uniti e Unione europea – per i fondamentali interessi di sicurezza dell’Italia: dal 13% della popolazione nel 2018, al 31% nel 2022. Tuttavia, c’è un fronte che crede in una cooperazione con entrambi (28%) e che privilegia relazioni strategiche militari con l’Ue (34%).
A un anno dall’inizio di questa guerra, dunque, chiunque pensi che il conflitto possa terminare solo grazie alle armi o solo grazie a una mediazione diplomatica dovrebbe lasciarci perplessi. Tutto è, semplicemente, più complesso. Senza mettere normativamente i due leader di Russia e Ucraina sullo stesso piano – è chiarissimo chi è stato aggredito e chi invece si è assunto il ruolo di carnefice – è necessario portare i due allo stesso tavolo per una mediazione. Se cesserà la pressione dei costi su Putin – dovuti al suo tragico azzardo – il leader russo non si siederà a un tavolo di mediazione; ma neppure lo farà Zelensky se il supporto militare esterno potrà sembrare illimitato.
La mediazione – anche grazie ad attori che hanno relativamente guadagnato dal conflitto, come la Turchia e la Cina – è una via intricata e irrimediabilmente connessa al supporto economico e militare all’Ucraina, alle sanzioni verso la Russia e a una ricerca della mediazione per vie multilaterali dove la ridiscussione di territori e confini sarà centrale (e difficilissima).
Bisogna creare le condizioni per convincere le parti che il costo della guerra è divenuto troppo elevato ed è preferibile gestire il conflitto in maniera non violenta
A livello globale è sempre più chiara l’instabilità tra i rapporti di forza delle maggiori potenze: il bipolarismo che ha definito la Guerra fredda è stato sostituito, dopo la sua fine, dal breve periodo dell’egemonia americana. Oggi assistiamo alla logica di violenza di una potenza che rimane tale solo militarmente (e forse sta dimostrando di non esserlo nemmeno da questo punto di vista), a una potenza egemone sfidata – gli Stati Uniti – che prova a difendere le proprie alleanze e i propri interessi e a una potenza aspirante egemone che tentenna, la Cina. A livello europeo l’illusione irenica è finita: abbiamo a lungo delegato ad altri la difesa e la sicurezza e non abbiamo criticamente pensato agli “altrove”, ai luoghi in cui le guerre avvenivano. In Italia, il sonno provinciale di una classe dirigente che poteva credere di ammiccare a dittatori, vincere con un sovranismo nazionalista o delegare tutto a un europeismo infallibile è stato interrotto bruscamente. Di fronte alle scelte difficilissime che abbiamo di fronte a noi, gli interessi nazionali non posso essere perseguiti basandoli solo sulle forze di un’unica nazione.
Per la classe dirigente italiana – che mira ad essere europeista e a influenzare l’europeismo – è forse giunto il momento di ripensare i propri orizzonti, sin qui dettati in primo luogo dai cicli elettorali. È necessaria un’Europa più forte – non solo economicamente – e più ferma nella difesa dello Stato di diritto e della democrazia e nell’alleanza con altre democrazie. Un’Europa che possa oggi contrastare la Russia e domani, forse, la Cina. Come ha ricordato James Fearon, fare la guerra è sempre più costoso che non farla, ma a volte nel volerla evitare falliamo. Bisogna creare le condizioni per convincere le parti che il costo della guerra è divenuto troppo elevato ed è preferibile gestire il conflitto in maniera non violenta. Perché in guerra nessuno vince, ma alcuni perdono più di altri.
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