TUNISIA TRA CRISI DEMOCRATICA E XENOFOBIA

Tratto da Eco Internazionale di Alessia Lentini

Kaïs Saïed, democraticamente eletto nel novembre 2019, con la sua discesa  autoritaria  ha portato la Tunisia, simbolo virtuoso della primavera araba, dentro a una profonda crisi economica che si è rapidamente tradotta in una preoccupante crisi democratica.

Le promesse fatte in campagna elettorale sono state tutte disilluse. L’uomo forte al potere, osannato da tanti e simbolo di speranza per molti, ha perso rapidamente l’affetto del suo popolo, che adesso urla nelle piazze slogan come «la gente vuole quello che tu non vuoi. Abbasso Saïed».

Saïed non è riuscito a risollevare le sorti di una nazione sull’orlo del collasso. Disoccupazione, povertà, corruzione e inflazione stanno logorando il Paese, ad oggi pesantemente indebitato con il Fondo Monetario Internazionale (FMI).

L’inevitabile ricorso al FMI costituisce uno dei fallimenti principali del presidente in carica: l’accordo preliminare per un prestito di ben 1,9 miliardi di dollari – attualmente in una fase di stallo – prevede pesanti misure di austerità quali l’eliminazione dei sussidi per cibo e carburante, tagli alla sanità pubblica, all’istruzione e alla protezione sociale nonché la privatizzazione delle principali aziende pubbliche.

La situazione tunisina preoccupa anche l’Europa e, soprattutto, l’Italia. Nel 2022 si è registrato un importante aumento degli sbarchi dalle coste tunisine e nei primi mesi del 2023 si registra lo stesso trend, con un incremento del 788% secondo le fonti del Viminale.

Numeri che spaventano l’esecutivo e che comportano la necessità di evitare a tutti i costi il default della Tunisia. La soluzione sarebbe lo stanziamento di 110 milioni di euro a favore delle piccole e medie imprese e il via libera del FMI ai prestiti richiesti.

Ma i problemi della Tunisia non sono solo economici. La grave crisi attraversata dal Paese ha, naturalmente, travolto anche il suo apparato sociale aprendo, come spesso accade in queste situazioni, la strada ad estremismi.

Sfruttando il malessere generale, il Partito Nazionalista Tunisino ha dato inizio a una preoccupante “caccia alle streghe” contro le persone nere, in particolare subsahariane.

Nel corso degli ultimi mesi si sono moltiplicati sui social network più diffusi nel paese, Tik Tok e Facebook, video xenofobi, spesso fake e costruiti a tavolino, di reati commessi da immigrati subsahariani dei quali si chiedeva l’espulsione.

Nell’estate scorsa è stata lanciata anche una petizione su Facebook per chiedere l’espulsione dei migranti “insediati in Tunisia” e nei primi giorni dell’anno il Partito Nazionalista Tunisino è uscito dalla rete per promuovere iniziative di propaganda direttamente per le strade della capitale.

Nell’estremo tentativo di distogliere l’attenzione dal disastro causato dalle sue politiche, lo stesso Saïed ha deciso di sfruttare la crescente xenofobia.

A seguito di una riunione del Consiglio di sicurezza nazionale, attraverso un comunicato pubblicato sulla pagina Facebook della presidenza, Saïed ha attaccato violentemente la comunità subsahariana accusandola di essere fonte di “violenza, crimini e atti inaccettabili”. Ma non solo, si è spinto oltre.

Ha deciso di far propria la teoria complottista del Grand Remplacement (“la Grande Sostituzione”), teoria secondo la quale sarebbe in atto una sostituzione dei bianchi da parte delle popolazioni migranti.

Più precisamente, secondo Saïed “orde di migranti clandestini” minaccerebbero l’identità arabadella Tunisia, rischiando di trasformarla in un Paese “solo africano”.

L’appoggio a tale teoria risulta alquanto paradossale dal momento che essa viene utilizzata in Europa, e in particolare in Francia, da uno dei suoi massimi fautori, l’ex candidato alle presidenziali Éric Zemmour, per portare avanti la propaganda razzista contro gli stessi tunisini.

Davanti alle proteste della comunità internazionale, dei Paesi africani e dell’Unione Africana, il presidente tunisino ha dovuto ritrattare.

In particolare, il ministro degli Esteri Nabil Ammar ha respinto le accuse di xenofobia e ha puntato il dito contro la «dura campagna di fake news alimentata da alcuni media internazionali che dipingono la Tunisia come un Paese razzista: in questo modo si vuole fare male al Paese».

«Abbiamo dato le nostre garanzie – ha continuato il ministro – per tutelare i diritti dei nostri fratelli subsahariani e il discorso del presidente della Repubblica Kais Saïed è stato strumentalizzato. Il nostro rimane uno Stato africano».

Ma si tratta di una ritrattazione solo di facciata. Saïed è ben lontano dall’abbandonare questa nuova linea politica e starebbe attuando una sorta di “dirottamento di opinione” che, secondo Omar Mestiri, giornalista e difensore dei diritti umani tunisino, gli permetterebbe di distogliere l’attenzione dai problemi reali del Paese.

In Tunisia, oggi sono presenti circa 21 mila cittadini stranieri, provenienti dall’Africa Subsahariana, e in particolare da Costa D’Avorio, Senegal, Mali, Camerun. Ossia lo 0.2% dell’intera popolazione.

Molti di essi sono irregolari, inclusi gli universitari arrivati per proseguire gli studi. Adesso hanno paura e, in tanti, stanno tentando di abbandonare il Paese a causa di un clima che l’Associazione degli studenti e dei tirocinanti africani in Tunisia (Aesat) definisce “sempre più ansiogeno”.

L’insicurezza per la propria incolumità non riguarda solo i cittadini stranieri ma anche gli stessi tunisini neri, vittime anch’esse del crescente clima di odio aizzato dalla propaganda xenofoba. Molti di essi hanno affermato di aver iniziato ad uscire di casa col passaporto per provare di essere effettivamente cittadini tunisini, avendo paura di essere fermati da passanti e forze dell’ordine.

Il razzismo tunisino ha origini ben più radicate, come spiega Sadiya Mosbah, attivista tunisina nera. Secondo Mosbah, che con la sua associazione Mnemty segue le storie dei tunisini neri, «la Tunisia non ha mai fatto i conti con la propria storia e con la propria identità di Paese africano. Non c’è traccia dell’eredità della comunità nera tunisina sui nostri libri di storia. È come se vivessimo in Svezia».

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