Tratto da Eco Internazionale di Alessia Lentini Kaïs Saïed, democraticamente eletto nel novembre 2019, con la sua discesa  autoritaria  ha portato la Tunisia, simbolo virtuoso della primavera araba, dentro a una profonda crisi economica che si è rapidamente tradotta in una preoccupante crisi democratica. Le promesse fatte in campagna elettorale sono state tutte disilluse. L’uomo forte al potere, osannato da tanti e simbolo di speranza per molti, ha perso rapidamente l’affetto del suo popolo, che adesso urla nelle piazze slogan come «la gente vuole quello che tu non vuoi. Abbasso Saïed».
Tratto da Today di Eleonora Mureddu Mai come in questo caso l'espressione "urne deserte" ha poco di eufemistico: in Tunisia, appena l'8,8 per cento degli elettori si è recato al seggio per il rinnovo del Parlamento. Al voto, che si è tenuto sabato, ha partecipato meno di 1 avente diritto su 10. Otto anni fa, l'affluenza era stata del 68%. Nel 2019, l'ultima volta che si sono tenute le legislative, il dato era sceso al 40%. Una traiettoria discendente che è per molti osservatori il simbolo della crisi del Paese considerato fino a poco tempo (almeno dall'Ue e dall'Italia) il più avanzato sul fronte della democrazia nel Maghreb. Un riconoscimento che ha fatto il pari con una pioggia di fondi attivati da Bruxelles e da Roma, in particolare per la gestione dei flussi migratori e per sviluppare il potenziale energetico tunisino. Come i 600 milioni stanziati proprio in questi giorni per la costruzione di un cavo sottomarino che trasporterà energia elettrica tra la sponda nordafricana e la Sicilia.

Le elezioni farsa

L'Europa, dunque, continua ad avere fiducia nella Tunisia, a dispetto della organizzazioni internazionali per i diritti umani e dei partiti di opposizione tunisini. Il fiasco delle elezioni, del resto, era stato già ampiamente preventivato alla vigilia: la maggior parte dellle forze politiche del Paese avevano invitato a disertare le urne dopo l'appovazione di un legge di riforma costituzionale che ha privato il Parlamento di diversi poteri, tra cui quello fondamentale di eleggere il governo. E così, l'attuale capo di Stato, Kais Saied potrà crearsi un esecutivo senza dover passare dall'assemblea. Ecco perché la maggioranza dei partiti di opposizione ha deciso di non partecipare alle elezioni, sostenendo che gli emendamenti costituzionali, approvati da un basso numero di elettori tramite un referendum lo scorso luglio, non erano legittimi. Ahmed Nejib Chebbi, leader del Fronte di salvezza (composto da cinque partiti di opposizione), ha descritto la bassa affluenza alle urne come un "vero terremoto che avrà gravi conseguenze". Anche l'Union Générale Tunisienne du Travail, la principale federazione sindacale del Paese, ha contestato pubblicamente la legittimità delle elezioni.
Tratto da Il Sole 24 Ore, di Roberto Bongiorni
La deriva autoritaria di Kais Saïed, nemico del movimento islamico tunisino Ennahda, rischia di riportare le lancette del tempo indietro di 12 anni. Lunedì 25 il controverso referendum di riforma costituzionale

Ricordiamoci il nome: Kais Saïed. Perché questo scaltro politico di 64 anni, votato nel 2019 presidente della Tunisia, e subito dopo autoproclamatosi “salvatore della patria”, potrebbe mettere una volta per tutte la parola fine a quella grande ondata rivoluzionaria che scosse i Paesi del Nord Africa e di parte del Medio Oriente, definita – quando le illusioni prevalevano su tutto - Primavera araba.

La deriva autoritaria di questo populista in salsa mediorientale, nemico del movimento islamico tunisino Ennahda, rischia di riportare le lancette del tempo indietro di 12 anni. Come? Con un controverso referendum di riforma costituzionale - si vota lunedì 25 luglio - che conferirà al presidente ampissimi poteri e che, per la prima volta in un Paese arabo toglierà il riferimento all’Islam come religione di Stato (per poi furbescamente inserire la Tunisia nella Umma, la grande nazione islamica senza confini).