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Quando nelle carceri si vive

Morti un aumento in carcere: 18 decessi e sovraffollamento cronico. Serve una politica differente

 

Tratto da Riforma, articolo di Monica Cristina Gallo

 

Per parlare della situazione delle carceri in Italia vorrei partire da un esempio vicino, dalla Casa Circondariale di Torino costruita a fine anni ’70, inizialmente denominata “Casa Circondariale Vallette” dal nome del quartiere di appartenenza e poi rinominata “Lorusso e Cutugno” in memoria di due agenti della polizia vittime del terrorismo. La struttura (costruita negli anni ’70-’80) negli anni ’90-2000 fu ampliata con la costruzione del padiglione E (l’edificio adibito alla comunità). Le condizioni strutturali incidono sulla quotidianità degli individui che vi sono rinchiusi o che ci lavorano. Gli spazi della detenzione appaiono spesso privi di quell’attenzione progettuale atta a consentire la semplice distanza fra gli individui, una distanza affinché ognuno possa avere a disposizione lo spazio vitale necessario per il proprio benessere. Il più delle volte le camere di pernottamento sono anguste, fatiscenti e ospitano due o tre persone estranee fra loro, talvolta appartenenti a culture, tradizioni e religioni diverse.

L’aspetto e la funzione architettonica degli ambienti dovrebbero garantire condizioni idonee alla socializzazione e questo non accade. In occasione delle nostre visite nelle Sezioni carcerarie osserviamo quanto i corridoi siano utilizzati come spazi di socialità. Le persone detenute si abituano allo squallore degli spazi, alla mancanza di cura architettonica e nessuno si sente chiamato a contribuirne al miglioramento. Ed è proprio in questi luoghi, desolanti, che il numero delle persone detenute continua ad aumentare. Il tasso di affollamento medio è arrivato al 110,6%. Il Garante nazionale segnala poi 18 decessi in carcere e un sovraffollamento del 127,54% nei primi 14 giorni del 2024.

Spesso non è garantita la separazione tra detenuti adulti e giovani adulti (l’11% dei detenuti ha meno di 25 anni), né quella tra detenuti in attesa di giudizio (40%) e detenuti definitivi (60%), né quella tra definitivi con pene brevi e detenuti con pene oltre i cinque anni. La promiscuità dunque, incide anche sulla collocazione tra regimi chiusi o aperti. L’alto tasso di affollamento incide anche sul percorso di trattamento individuale, soprattutto sulla praticabilità del lavoro. Sono infatti presenti all’interno del carcere, oltre ai servizi per l’amministrazione, anche luoghi adibiti al lavoro e alle attività per il reinserimento delle persone detenute.

Nel carcere di Torino solo cinquanta detenuti (pari al 3,7%) lavorano all’esterno, mentre i lavoratori interni sono il 30%. Solo il 17% segue corsi di formazione professionale. Le stesse attese di allocazione nelle sezioni si trasformano così in una sorta d’isolamento, dove le giornate rischiano di passare “facendo nulla” e dove sovente trovano spazio la depressione e atti di autolesionismo (il rapporto dell’associazione Antigone segnala che ben 1100 detenuti fanno uso di sedativi e ipnotici).

L’alto tasso di affollamento incide anche sulla presa in carico e l’osservazione degli educatori, sulla cura del personale medico e il lavoro del personale di polizia penitenziaria. Gli educatori, in forza agli Istituti ,sono spesso insufficienti e così lo sono i medici e i mediatori linguistici e i volontari. 

Partendo dunque dall’esempio di Torino, non è difficile affermare che si dovrebbe porre più attenzione al tema carceri a livello istituzionale; che si dovrebbe aprire un ampio dibattito pubblico mediante una razionale riflessione, non tanto su quali correttivi apportare a un modello detentivo che si presume teoricamente adeguato, bensì, al contrario, su come mettere in discussione l’attuale, evidenziandone i limiti, le incongruità, l’inefficienza e l’inadeguatezza in rapporto al mandato ideale e ai costi da sostenere per il funzionamento della “macchina carceraria”.

I dati sulla recidiva cristallizzano in negativo il giudizio sulla devastante performance delle carceri italiane e pongono l’imprescindibile questione delle responsabilità. A tale giudizio complessivo è doveroso aggiungere una sottolineatura specifica per quanto riguarda i profili relativi al diritto alla salute delle persone recluse: tempi di attesa per visite specialistiche incompatibili con una qualsivoglia pretesa di prevenzione o di diagnosi e cura. I presidi sanitari interni alle strutture sono insufficienti e dunque costantemente sotto stress, con inevitabili ricadute sotto il profilo relazionale paziente-sanitario; un massiccio e anomalo utilizzo di presidi farmacologici volti a contrastare gli stati d’ansia e di alterazione dell’umore delle persone recluse. Questo particolare approccio sanitario è stato oggetto di una recente inchiesta giornalistica di denuncia, a cui purtroppo non ha fatto seguito alcun intervento chiarificatore da parte delle autorità competenti.

Monica Gallo è Garante dei diritti delle persone private della libertà personale (Comune di Torino) 

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