22 Mar L’Europa tra bullismo e tiranni
Tratto da il Manifesto, articolo di Mario Ricciardi
Democrazia corre il rischio di diventare il nome delle buone intenzioni che i governanti vogliono farci credere di avere. Guardo l’espressione compiaciuta di Ursula von der Leyen affiancata dal presidente egiziano Abdel Fattah El-Sisi, soddisfatto come se avesse vinto la lotteria, e mi torna in mente questo avvertimento, letto in un libro di John Dunn dei primi anni Novanta, quando sembrava che tutti fossero destinati, prima o poi, a vivere in un paese la cui forma di governo poteva dirsi democratica. Oggi il trionfalismo di quegli anni sembra appartenere a un’epoca lontana, ma fa rabbia pensare, almeno per chi già c’era a quei tempi, quanto avremmo fatto meglio a prendere sul serio gli avvertimenti di Dunn.
Invocare la democrazia per i nemici e condonare l’autoritarismo degli amici non è certo una novità, come hanno scoperto a proprie spese tanti paesi di quello che oggi chiamiamo «il sud del mondo» nel corso della guerra fredda. L’attuale presidente egiziano non è che l’ultimo di una lunga serie di autocrati che esemplificano quello che un presidente Usa che aveva il dono della sintesi chiamava our son of a bitch. Franklin D. Roosevelt era Democratico, non Repubblicano, ma ragionava come il capo dello Stato di una potenza imperiale.
In questo la sua posizione non era diversa da quella di tanti capi di Stato europei che prima di lui avevano tentato di far quadrare il bilancio morale di un regime democratico che difende una posizione di dominio o di egemonia sul piano internazionale.
Colpisce che oggi a avere lo stesso atteggiamento sia la responsabile dell’Unione europea, un’entità politica che ha costruito la propria legittimità sull’idea che i valori democratici fossero una conquista di civiltà. Un’idea su cui si è basata la promessa di un continente che si sarebbe lasciato definitivamente alle spalle l’imperialismo e la politica di potenza che avevano condotto a due guerre sanguinosissime e allo sterminio degli ebrei in nome della «purezza razziale».
Domenica al Cairo quella promessa è stata tradita, e non per la prima volta, in nome della difesa dei confini del «giardino» europeo.
Mi rendo conto che questo giudizio appare ingenuo agli occhi dei tanti realisti che oggi si danno da fare per difendere la tesi che l’Europa unita è, di fatto, una potenza che non può sottrarsi alla dura logica del conflitto che deriva da interessi incompatibili. L’Europa deve armarsi, ci dicono questi realisti, e prepararsi alla guerra, se necessario, per proteggere la propria sicurezza da altre potenze come la Russia, o domani la Cina, che hanno mire espansioniste. Questo imperativo strategico ci impone di non guardare tanto per il sottile, anche perché sappiamo di non poter contare più come un tempo sulla protezione degli Stati uniti, che da anni, e non solo durante la presidenza Trump, guardano al fronte del Pacifico come quello cruciale per i propri interessi nazionali.
Sono sufficientemente realista da prendere queste preoccupazioni sul serio, ma è proprio il mio realismo a alimentare il dubbio che non sia una realpolitik maldestra e venata di arroganza a metterci al sicuro dalle minacce.
Un esempio di come una postura bellicosa sia del tutto insufficiente a tutelare la sicurezza europea lo abbiamo avuto nei giorni scorsi nelle dichiarazioni di Emmanuel Macron che, da un lato ha lasciato intendere che la Francia potrebbe intervenire, in una qualche forma in verità poco chiara, nel conflitto tra Russia e Ucraina, e poi ha aggiunto che la sua dichiarazione era un esercizio di «ambiguità strategica» necessario per scopi di deterrenza.
Una situazione che ricorda quelle baruffe di paese in cui uno dei litiganti strepita e minaccia sfracelli contro l’avversario urlando «tenetemi» agli astanti. Un gioco pericolosissimo se, come accade talvolta, nessuno ti trattiene.
L’Europa a guida centrista di questi anni trasmette a chi la osserva, a Mosca o a Pechino, la stessa impressione. Un ometto spaventato da un bullo che sa bene di non essere in grado di affrontare.
Per essere forti le democrazie non possono basarsi solo sull’aumento delle spese militari. Devono far leva, come sono state in grado di fare quando hanno affrontato il fascismo e il nazismo, sui propri principi e sulle promesse che li esprimono: l’eguale libertà e la prospettiva di una vita decente per tutti i propri cittadini.
C’è poco da sorprendersi se persone spaventate per il proprio futuro, messo a rischio da politiche economiche di austerità che hanno eroso la sicurezza sociale e i diritti di cittadinanza, guardano con diffidenza al nuovo interventismo di leader centristi che inseguono la destra (sotto questo profilo l’attivismo di Giorgia Meloni fianco a fianco di von der Leyen e Macron dovrebbe far riflettere). Un’Europa ripiegata su se stessa, ossessionata dalla difesa dei propri confini da poche decine di migliaia di disperati che lascia morire di sete e di fame su un barcone, o lascia alla mercé degli sgherri di governi autocratici, non può avere la credibilità per farsi rispettare dai propri avversari e amare dai propri cittadini.
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