21 Apr LE RADICI DELL’ANTI-ANTIFASCISMO
Tratto da la Repubblica di Simonetta Fiori
“Partigiani delinquenti”. “Responsabili di attentati contro inermi”. Assassini, vigliacchi, terroristi. Sono soltanto alcuni degli epiteti antiresistenziali che da un lontano passato rimbalzano in queste settimane sulla stampa di destra e nel discorso pubblico, perfino nei luoghi istituzionali come la presidenza del Senato. Ma pur nella sua eccezionalità, senza paragoni nell’Europa occidentale, la retorica anti-antifascista ha suscitato l’indignazione soltanto d’una parte degli italiani, trovando altrove indifferenza o giustificazione.
Per capire l’anomalia italiana è necessario tornare indietro nel tempo, a una zona grigia non esclusivamente neofascista che dilagò nella penisola alla fine della guerra. L’attuale mitografia nutrita di stereotipi e credenze inventate affonda le proprie radici in quell’Italia schizofrenica, dove i padri fondatori davano vita alla Costituzione – “autentico capovolgimento della concezione autoritaria del fascismo”, la definisce il presidente Mattarella – e intanto migliaia di partigiani finivano in galera.
E’ un racconto dell’orrore civico quello proposto da Michela Ponzani nel suo documentato Processo alla Resistenza (Einaudi). Il sottotitolo richiama L’eredità della guerra partigiana nella Repubblica 1945-2022, ma gran parte della ricerca è concentrata sulle inchieste e i dibattimenti aperti dalla giustizia militare e civile dopo la Liberazione e proseguiti per tutto il decennio successivo, fino alla soglia dei Sessanta. Un lungo inverno della democrazia rimosso dalla coscienza collettiva, una “restaurazione clandestina” (così Piero Calamandrei) ad opera di una magistratura compromessa col fascismo e di una classe dirigente incapace di cambiare norme e codici plasmati dal ventennio nero.
Per vedere riconosciuta ai partigiani la qualifica di “legittimi belligeranti” bisognerà aspettare la sentenza della Cassazione sull’attentato di via Rasella, nel 1957. Ma per un lunghissimo periodo, anche dopo la celebre sentenza, requisizioni, perquisizioni, ordinarie azioni di guerriglia nei venti mesi della guerra civile finirono con l’essere rubricate come odiosi delitti comuni, mentre l’amnistia di Togliatti già dal giugno del 1946 metteva in libertà spie, rastrellatori, fucilatori di partigiani e persecutori di ebrei al soldo di Salò.
La Storia che decreta il giusto e lo sbagliato veniva capovolta nelle aule di giustizia, dove era garantito il premio ai carnefici e il carcere ai liberatori. Rodolfo Graziani, il macellaio del Fezzan, il criminale di guerra che la presidente del Consiglio Meloni richiama alla mente solo se a ricordarglielo è Repubblica, fu condannato nel 1950 a soli 19 anni di pena, per essere scarcerato appena quattro mesi più tardi. Stesso fortunato destino per Junio Valerio Borghese, il comandante della X Mas che non aveva esitato a far fuoco sui civili durante la guerra fratricida. Il padre costituente Concetto Marchesi li ritrae insieme sul palco nel 1952, osannati dalle piazze del Movimento sociale di cui divennero massimi esponenti.
“Se qualcuno, quando eravamo sulle montagne, fosse venuto a dirci che un bel giorno, a guerra finita, avremmo potuto essere chiamati davanti ai tribunali, gli avremmo riso francamente in faccia”, scrive nel 1947 Dante Livio Bianco, storico comandate di Giustizia e Libertà. E’ l’Italia democratica, quella deiCalamandrei, degli Umberto Terracini, dei Lelio Basso – nomi sideralmente distanti dall’attuale cultura di governo – che si precipita ad arginare l’ondata repressiva, contrastando l’abitudine invalsa nei tribunali di esaminare l’eccezionalità della guerra civile con gli stessi criteri adottati in tempo di pace. Talvolta non era solo una questione di interpretazione, ma di vere e proprie torture.
Come quelle a cui ricorse il comandante della stazione dei carabinieri di Castelfranco Emilia, Silvestro Cau, per indurre gli ex partigiani comunisti a confessare sui delitti del “cosiddetto triangolo rosso”. Maschere antigas con il filtro imbevuto di acqua salata, bastonature, costole e timpani in frantumi. Nel maggio del 1952 la denuncia di Terracini contro il maresciallo torturatore finisce in Parlamento, ma il ministro degli Interni Mario Scelba è irremovibile nella sua difesa, “vista la delicatezza del momento politico”.
Non mancarono i torti, dalla parte giusta della storia. Violenze efferate, condannate dalla stessa dirigenza del partigianato. Ma gli indifendibili furono una minoranza rispetto ai quasi ventimila partigiani vilipesi e chiusi dietro le sbarre, molti in attesa di giudizio per risultare innocenti dopo anni di galera o condannati ingiustamente come il comandante Diavolo, che trascorse dieci anni in cella per un omicidio mai commesso. Si arrivò anche al paradosso di sanzionare antifascisti già puniti dal fascismo o di revocare la qualifica di patriota a un resistente perché marchiato dal Tribunale Speciale di Mussolini.
E azioni di guerriglia autorizzate dai comandi partigiani tra il 1943 e il ’45 venivano svilite a volgari rapine ad opera di teppaglia. Dietro queste sentenze spesso c’era lo zampino di un procuratore amico dei repubblichini. L’accusa più diffusa era quella di “omicidio determinato da un movente di carattere personale e non dalla lotta al nazifascismo”. Ne fu vittima perfino l’ebreo Attilio Ottolenghi, già perseguitato per le leggi antisemite.
E intanto un brigatista nero stupratore poteva essere amnistiato perché la violenza sessuale non costituiva “un delitto particolarmente efferato”. Ponzani cita l’assurda sentenza del 1947 con cui la Cassazione non considerava “sevizia” l’aver torturato una partigiana “lasciandola bendata al ludibrio dei camerati”: quel capitano delle Brigate nere poteva essere incriminato per l’offesa all’onore della donna, “anche se – attenzione alla precisazione – essa aveva goduto di una certa libertà essendo staffetta partigiana”. “Madre Partigiana, madre puttana”, gridavano i compagni alla figlia di Carla Capponi, l’attentatrice di via Rasella. Gli insulti potevano arrivare dentro la Camera dei Deputati, dove Capponi fu bersaglio dei parlamentari ex fascisti “con gesti inequivocabili”, annota Ponzani per testimoniare il clima dell’epoca.
“Ma che dobbiamo festeggiare?”. Se lo domandò il segretario del Movimento Sociale Giorgio Almirante nell’aprile del 1955, in occasione del decennale della Liberazione. Una ricorrenza giudicata divisiva allora come oggi, avversata dai “pacificatori” che poi sono i “parificatori” di partigiani e repubblichini perché non c’è pacificazione senza il riconoscimento dell’antifascismo. A partire dagli anni Novanta, la festa della Liberazione ha conosciuto una ripetuta dannazione da parte del nuovo centro-destra, prima con la proposta di abolizione del forzista Marcello Dell’Utri, più tardi con il “me ne frego” di Salvini. Ma che dobbiamo festeggiare?, ripetono ora alcuni dei governanti di Fratelli d’Italia, in partenza per mari e monti pur di non celebrare una data fondativa del calendario civile. Ogni azione acquista così un senso, basta sapere da dove arriva.
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