SCUOLA. Tra le 50mila persone scese in piazza a Roma il 26 novembre accanto a Non Una di Meno c’erano anche attivisti e attiviste, operatori e operatrici di sportelli e rifugi […]
Tra le 50mila persone scese in piazza a Roma il 26 novembre accanto a Non Una di Meno c’erano anche attivisti e attiviste, operatori e operatrici di sportelli e rifugi antiviolenza, associazioni e collettivi studenteschi. Realtà che, con possibilità e impegni diversi, si impegnano per prevenire e contrastare la violenza di genere.
Tra questi attori, il grande assente è ancora la scuola.
Nonostante le linee guida dell’Oms indichino che un’adeguata educazione sessuoaffettiva sia fondamentale nella prevenzione di abusi sessuali, violenza, episodi di omolesbotransbifobia – oltre che per la riduzione di gravidanze e aborti nelle adolescenti e per la diminuzione delle malattie sessualmente trasmissibili – in Italia non esiste ancora una legge nazionale che agisca in modo capillare e omogeneo sulla formazione a partire dall’infanzia.
Il nostro Paese è, invece, parte di un piccolo gruppo di Stati membri dell’Unione europea – a fargli compagnia ci sono Bulgaria, Romania, Cipro, Lituania, Polonia – dove l’educazione sessuale nelle scuole non è ancora obbligatoria. Diverse proposte di legge hanno continuato a succedersi negli anni – a partire da quella del ‘75 a firma di Giorgio Bini –, ma nessuna di queste è andata a buon fine.
Eppure l’Italia è anche firmataria della Convenzione di Istanbul del Consiglio d’Europa, che prevede l’impegno a «includere nei programmi scolastici di ogni ordine e grado dei materiali didattici su temi quali la parità tra i sessi, i ruoli di genere non stereotipati, il reciproco rispetto, la soluzione non violenta dei conflitti nei rapporti interpersonali, la violenza contro le donne basata sul genere e il diritto all’integrità personale».
Dell’importanza di attivare percorsi mirati di educazione sessuoaffettiva abbiamo parlato con due educatrici di due associazioni che operano principalmente sul territorio romano.
Da un punto di vista economico, la responsabilità di attivare corsi di educazione sul tema è rimessa alle regioni, che possono così decidere arbitrariamente di destinare fondi pubblici per istituire percorsi di educazione alla sessualità e all’affettività nelle scuole.
Ma l’attivazione è doppiamente arbitraria, dato che la decisione finale spetta ai singoli istituti scolastici e ai loro dirigenti. Motivo per cui la maggior parte degli studenti non ha mai frequentato un corso di educazione sessuale in nessun grado scolastico, a causa, spesso, della riluttanza del corpo docenti o dei genitori.
«All’inizio riscontriamo quasi sempre dei pregiudizi. Ma quando negli incontri preliminari spieghiamo il progetto allora capiscono gli obiettivi e nessuno si schiera contro». Lo racconta Monica Pasquino, direttrice di Scosse, che oltre alla formazione nelle scuole si occupa anche di ricerca.
«Non rendiamo mai noto il nome delle scuole con cui collaboriamo finché non terminano i progetti, perché è capitato in passato di finire sotto l’attacco delle associazioni Pro vita»
I percorsi avvengono in orario curricolare e hanno come obiettivo «il contrasto alle violenze di genere, intese in forme plurali. Quindi non soltanto alla violenza dell’uomo contro le donne, ma anche all’omolesbotransbifobia, alla violenza tra pari, alle tendenze di controllo e alle relazioni tossiche che si possono sperimentare già nella preadolescenza».
Uno dei progetti più lunghi, “Abc, alfabeti per l’educazione sentimentale”, è un percorso biennale. «Il grande problema – dice Pasquino – è che si tratta nella maggior parte dei casi di progetti estemporanei».
Corsi che educano al rispetto e alla parità di genere dovrebbero essere largamente condivisibili ma, appellandosi a una fantomatica «ideologia gender», i detrattori contribuiscono ad alimentare un clima di sospetto.
«Non rendiamo mai noto il nome delle scuole con cui collaboriamo finché non terminano i progetti, perché è capitato in passato di finire sotto l’attacco delle associazioni Pro vita» spiega Pasquino. Complici anche alcuni esponenti politici, che della battaglia all’educazione sessuoaffettiva nelle scuole hanno fatto una bandiera di partito. Come il leader della Lega Matteo Salvini, che a giugno di quest’anno aveva dichiarato: «Parlare di sesso, di coito e penetrazione a bimbi delle scuole elementari? Dal 70% di mamme e papà, me compreso, un secco no».
In realtà, la formazione per la primissima età prevede tutt’altro.
«Nelle scuole dell’infanzia svolgiamo dei laboratori che seguono gli standard indicati dall’Oms, con obiettivi e contenuti che sono chiaramente diversi da quelli destinati ai 14enni. Si lavora principalmente sulla rappresentazione dei modelli femminili, facendo vedere che le donne possono fare tutto quello che fanno le figure maschili, in modo che la libertà non sia qualcosa da conquistare crescendo, ma un orizzonte di possibilità fin da subito».
Diverso il lavoro sull’adolescenza: «Soprattutto dopo la pandemia, – prosegue la direttrice di Scosse – ci siamo accorti di un grandissimo bisogno di confronto tra i ragazzi e di un grave deficit di socializzazione». Si sono creati anche dei fenomeni nuovi da affrontare, come «il proliferare di atteggiamenti di controllo all’interno delle relazioni sentimentali, tramite geo localizzazione ad esempio, o l’aumento del cyberbullismo».
Anche gli insegnanti, che come tutte le persone sono portatrici di stereotipi, rientrano nei target della formazione.
«La preparazione degli educatori fin dall’asilo nido è strategica – spiega Pasquino –. Il primo aspetto che facciamo notare al corpo docenti è quanto siano pervasivi gli stereotipi di genere che stanno alla base di disparità e violenza e di quanto siano diffusi nei libri di testo usati per l’insegnamento».
Dopo aver nominato e decostruito gli stereotipi «proponiamo degli strumenti per costruire una scuola più inclusiva. Nelle scuole primarie di secondo grado c’è una generazione che vive in modo conflittuale il binarismo di genere, ad esempio. Gli stessi insegnanti se ne rendono conto e spesso chiedono supporto».
Lo conferma Alessia D’Innocenzo, educatrice per Differenza Donna, associazione che gestisce il numero antiviolenza 1522, aggrega diversi centri e offre assistenza legale gratuita a donne in difficoltà. «Capita che affrontando questo tipo di tematiche in classe si aprano dei vasi di pandora, perché i ragazzi raccontano di casi di violenza familiare o tra compagni di classe e gli insegnanti non sanno come agire».
Molto spesso, però, sono gli stessi studenti a manifestare il bisogno di un’educazione mirata e svolta da professionisti. «In queste settimane di frequenti occupazioni dei licei sono loro stessi a chiamarci e chiederci di tenere dei corsi durante l’autogestione. Molti sono già avanti su questi temi perché sono parte di collettivi intersezionali, parlano di transfemminismo e hanno già lavorato sulle logiche di violenza», dice D’Innocenzo. «Le ragazze – continua – vivono la violenza sulla loro pelle già in preadolescenza e hanno una maggiore consapevolezza che viene dall’esperienza, ma anche gli studenti maschi diventano sempre più attenti. Quando si capisce che gli stereotipi di genere creano delle gabbie per tutti, allora si sentono coinvolti anche loro. Alcuni, dopo gli incontri che teniamo in classe, decidono di partecipare alle nostre manifestazioni e visitare i centri antiviolenza».
Secondo lo Studio nazionale fertilità realizzato dall’Istituto Superiore di Sanità nel 2019, per l’11% degli studenti intervistati l’educazione sessuoaffettiva dovrebbe iniziare già dalle elementari, per il 50% dalle scuole medie inferiori e per il 32% dalle scuole superiori.
Ma al momento, per l’80% di loro lo strumento da cui ricavare informazioni sulla sessualità rimane internet.
La domanda di un’educazione professionale nelle scuole rimane inascoltata perché «l’Italia è un paese sessuofobico – sostiene Pasquino -. Portiamo addosso il peso di questo retaggio culturale cattolico e, purtroppo, da questo governo non ci aspettiamo niente meglio. Continueremo a lavorare con quel poco che abbiamo a disposizione, sperando di incontrare sempre di più dirigenti e insegnanti coraggiosi e laici».
Sorry, the comment form is closed at this time.