23 Dic CROCIFISSI AD UN NOME
Tratto da Valigia Blu di Massimo Prearo
La battaglia condotta contro il fu “DDL Zan” – che prevedeva “misure di prevenzione e contrasto della discriminazione e della violenza per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità” – ha rappresentato un momento cruciale della mobilitazione che gruppi quali ProVita & Famiglia o l’associazione Family Day, conducono da almeno una decina d’anni contro “la teoria del gender”, “l’ideologia gender”, “il gender”. Queste campagne fanno riferimento a un insieme eterogeneo di organizzazioni, gruppi, associazioni, e network digitali, ormai conosciuti e studiati come movimenti “anti-gender”, attivi anche a livello internazionale e transnazionale, in lotta contro le politiche che vanno nella direzione del riconoscimento dei diritti delle persone LGBTQIA+.
Tra queste, una in particolare è diventata in Italia l’obiettivo da abbattere: la “carriera alias”. Il 6 dicembre l’associazione ProVita & Famiglia ha infatti annunciato di aver diffidato 150 scuole che l’hanno adottata, intimandole di annullarla e chiedendo l’intervento del Ministro dell’istruzione, Valditara. Il 13 dicembre invece sono ricevute al MIUR le associazioni CitizenGo Italia e Non Si Tocca La Famiglia, per consegnare la petizione “Stop gender nelle scuole” e presentare le proposte “per la tutela e l’educazione dei bambini e dei ragazzi dalle propagande ideologiche”. Accanto ai soliti “pericoli” (come lo “schwa”), anche qui troviamo additata la “carriera alias”.
La “carriera alias” è un accordo di riservatezza introdotto da diversi anni in molte università italiane, e più di recente anche nelle scuole, che permette a giovani, adolescenti e in generale studenti trans di utilizzare all’interno del contesto scolastico e universitario un’identità “alias”, corrispondente al proprio nome di elezione, senza che questo incida in alcun modo sui documenti anagrafici.
La “carriera alias” è una proposta che nasce da una lunga e approfondita riflessione, (complici le lacune della normativa italiana) che ha coinvolto genitori, associazioni e istituzioni. Realtà che ben conoscono il disagio e l’umiliazione che comporta il dover costantemente e forzatamente esporre e giustificare la propria condizione di genere – perché non conforme alle aspettative e alle norme sociali – ai pari, alle e ai docenti, all’amministrazione, in qualsiasi momento della propria carriera di studente. Si tatta di una misura per rendere effettivo il diritto allo studio delle persone trans, per cui la scuola e l’università sono spesso ambienti negativi, ostili, discriminatori e violenti – come episodi recenti mostrano. E come confermano i dati raccolti dall’Agenzia Europea per i Diritti Fondamentali (FRA), secondo cui, in ambito scolastico, solo il 4% dei giovani LGBT italiani tra i 15 e i 17 anni dichiara di aver fatto coming out. Mentre il 56%, quindi più della metà, dichiara di nascondere sempre la propria identità. Una cifra che sale al 77% per giovani e adolescenti trans o non conformi rispetto al genere atteso.
L’emergere di una mobilitazione anti-trans
Questa nuova battaglia rivela però anche un’evoluzione del fronte “anti-gender” che non coinvolge più solamente i nuovi movimenti cattolici, al lavoro ai margini del campo politico in stretta collaborazione con i partiti delle destre populiste radicali attualmente al governo. Nuove realtà e nuove istanze si sono schierate, dando forma a una campagna, a discorsi e azioni il cui obiettivo è contrastare, ostacolare, impedire il riconoscimento dell’esperienza trans, soprattutto quando questa riguarda giovani e adolescenti. Il dibattito sul e contro il DDL Zan ha costituito un’opportunità politica per la mediatizzazione di questa nuova campagna di mobilitazione e dunque per la costituzione di un fronte anti-trans le cui istanze sono riconducibili a tre diverse forme di attivismo.
La prima si colloca nella traiettoria della mobilitazione anti-gender promossa dai movimenti neocattolici. La seconda si iscrive nella dinamica di ricomposizione di un movimento internazionale e transnazionale che rivendica un femminismo radicale critico del concetto di genere, della categoria di identità di genere e più generalmente dell’esperienza transgender (gender critical). Infine, la terza – che in parte si appoggia al lavoro teorico-politico prodotto dalle prime due – prende la forma di un nuovo universo di attivismo specializzato nella produzione di strumenti comunicativi di lotta contro le “lobby trans”, componenti a loro avviso particolarmente potenti della già contestata e presunta “lobby LGBT”. Nuovi gruppi sono nati di recente: da un lato coinvolgono persone professioniste, di varia natura e competenza, esperte della comunicazione e del linguaggio scientifico, e dall’altro genitori di giovani e adolescenti trans, o in ogni caso persone che rivendicano una competenza tecnica derivante dalla loro esperienza genitoriale – per cui useremo l’espressione “tecnico-genitoriale”.
Quest’ultima forma di attivismo anti-trans assume il linguaggio scientifico come fonte di autolegittimazione e come strumento di contestazione degli enti, delle organizzazioni e più in generale della comunità e delle autorità scientifiche (e soprattutto dei loro metodi di valutazione e di validazione interna). Tale attivismo tecnico-genitoriale ha preso forma negli ultimi anni nei paesi più avanzati dal punto di vista del riconoscimento dei diritti LGBTQIA+, come il Regno Unito o il Canada, ovvero proprio in quei contesti dove pratiche come la carriera alias, la semplificazione delle procedure di riconoscimento delle identità di genere non conformi, o le pratiche affermative dell’esperienza trans o non-binaria delle persone giovani e adolescenti, sono state oggetto di una formalizzazione e di una normalizzazione istituzionale – attualmente fragilizzata proprio dagli attacchi di queste realtà.
In questo contesto, l’attivismo anti-trans incarnato da organizzazioni come l’inglese GenSpect 2021, che appartiene al terzo tipo, è emblematico. Nata nel 2021, GenSpect si presenta come “un’alleanza internazionale di professionisti, gruppi di genitori, persone trans, detransitionners e altri che cercano un’assistenza di alta qualità per i giovani in difficoltà di genere”, e che contesano l’approccio “affermativo di genere”. Lo scopo principale di questa organizzazione è quello di produrre un sapere dissidente, un contro-sapere che contesta il paradigma affermativo. GenSpect ha pubblicato, per esempio, ben 9 opuscoli indirizzati a diverse categorie (tra cui genitori, scuole, università, psicoterapeuti, pediatri) per promuovere un approccio diverso, da loro definito come “razionale”, dell’esperienza trans, sulla base di materiale scientifico di natura dissidente rispetto agli standard, ai paradigmi e ai modelli riconosciuti delle comunità scientifiche di riferimento. Si tratta cioè di un discorso di mobilitazione (ovvero la cui funzione è quella di servire la costruzione di un’agenda di movimento per fare pressione sulla politica, sulle istituzioni, e sul dibattito pubblico) che si appoggia in maniera selettiva e strategica su studi pubblicati da riviste di settore più o meno indulgenti nel processo di peer-review, ma molto più spesso su saggi scritti da persone esperte della divulgazione scientifica, professionisti generalmente non implicati nella ricerca accademica. In altre parole, si tratta di un discorso pseudo-scientifico.
Una strategia discorsiva con una maschera scientifica
Un esempio lampante è la teoria che nell’impianto strategico-discorsivo di questo attivismo pseudo-scientifico gioca un ruolo centrale: la cosiddetta “disforia di genere a insorgenza rapida” (Rapid-Onset Gender Dysphoria, o ROGD). Si tratta di un’ipotesi elaborata dalla ricercatrice Lisa Littman (peraltro advisor di GenSpect e presidente dell’Institute for Comprehensive Gender Dysphoria Research, da lei stessa fondato fuori dall’università e di cui fanno parte alcuni componenti di GenSpect, tra cui la presidente Stella O’Malley, in una sorta di circolo chiuso). Apparsa inizialmente in un paper del 2016, e poi nella rivista PLOS ONE sotto forma di articolo nel 2018, l’articolo in cui Littman avanza la sua teoria si basa su uno studio da lei stessa definito esplorativo, condotto con questionario diffuso in tre forum online conosciuti per la loro ostilità nei confronti dell’“ideologia trans” e frequentati da genitori di giovani e adolescenti trans, preoccupati, insoddisfatti o già politicizzati in direzione, per così dire, “no-trans”.
Secondo Littman, e secondo i genitori che hanno risposto alla sua richiesta, esisterebbe una nuova forma di disforia di genere che non corrisponde a un sentimento interiore, ma sarebbe piuttosto determinata da fattori esterni, tra cui la frequentazione di giovani e adolescenti trans, le informazioni trovate su media, blog, forum e internet in generale, o i discorsi affermativi promossi a scuola, che porterebbero giovani e adolescenti ad appropriarsi di un’identità trans per “adattamento”, o per pressione sociale, o per trovare conforto in un percorso diagnostico. Questa forma di “disforia di genere a insorgenza rapida” sarebbe allora una soluzione indotta dall’esterno per spazzare via interrogazioni, disagi o dissonanze identitarie tipiche della pubertà e dell’adolescenza, o di forme di neurodivergenza varia, tra cui autismo o di ADHD, per esempio, interpretate invece in questo senso “rapidamente” come “sintomatiche” della disforia di genere.
In sintesi, l’idea sostenuta dall’articolo, poi diventato il punto di riferimento di questo discorso anti-trans, è che l’incremento delle affermazioni di genere trans e non-binarie osservato negli ultimi anni non sarebbe la manifestazione di una “vera” disforia di genere o di una liberazione delle soggettività trans, bensì il prodotto di una forma di “contagio sociale” determinato da azioni di indottrinamento, plagio e predazione (una delle categorie utilizzate è quella di “grooming”, appunto, che rimanda a strategie di cybermanipolazione). Nell’articolo di Littman si postulava, per esempio, che il fatto che i genitori non avessero mai avuto segnali di sentimenti o comportamenti “disforici” da parte dalla persona giovane o adolescente, fosse indicatore di una forma di disforia esogena determinata dal “contagio sociale”. E non considerava nemmeno la possibilità – in accordo con la letteratura esistente, oltre che con le narrazioni delle persone trans, del tutto assenti dallo studio sulla presunta ROGD – che tale “latenza” potesse esprimere più probabilmente il risultato di una difficoltà a comprendersi o a parlare di sé, oppure di un desiderio di non parlarne con i genitori, per non esporsi a eventuali reazioni negative o addirittura violenza da parte dei genitori e della famiglia, o dei pari o della scuola.
Lo studio di Littman ha da subito suscitato un vivo dibattito all’interno della comunità scientifica, (su cui ha scritto anche la rivista “Science”, o in termini più accessibili la ricercatrice e attivista trans Julia Serrano) che ne ha messo in evidenza le debolezze e le fallacie metodologiche, al punto che la rivista PLOS ONE ha rivalutato interamente l’articolo, esigendo dall’autrice una nuova versione corretta, pubblicata nel 2019.
In questa seconda versione, è Littman stessa a esplicitare che l’articolo non dimostra in alcun modo l’esistenza di una nuova forma di “disforia di genere a insorgenza rapida” (ROGD), ma ne propone unicamente l’idea come ipotesi, a partire da uno studio non rappresentativo e non generalizzabile, anche in ragione del biais della selezione del campione. Come sottolinea la sociologa Florence Ashley, autrice di un’analisi dello studio di Littman, l’ipotesi di una “disforia di genere a insorgenza rapida” presenta le caratteristiche non di una teoria scientifica, ma di una strategia discorsiva che mobilita il linguaggio scientifico per contestare proposte, pratiche o politiche che mettono in discussione lo status quo e aprono nuove strade di autonomia identitaria al di fuori dei regimi di genere e di sessualità tradizionali. Tale strategia pseudo-scientifica, prosegue Ashley, è del tutto simile a quella utilizzata per sostenere l’esistenza – ampiamente invalidata dalla comunità scientifica – di una “sindrome da alienazione parentale” da parte di gruppi di interesse mascolinisti e anti-femministi – teoria che stava peraltro alla base del famoso, contestato e poi abbandonato “DDL Pillon”.
Sebbene il mondo scientifico abbia in gran parte invalidato l’ipotesi avanzata da Lisa Littman, l’attivismo pseudo-scientifico di organizzazioni come GenSpect in Gran Bretagna, dell’Observatoire de la petite sirène o Ypomoni in Francia, o la stessa ProVita & Famiglia la utilizzano per costruire un discorso anti-trans. Il quale, oltre a contrastare in sede politica e istituzionale qualsiasi iniziativa di tipo affermativo, mira a intercettare genitori di giovani e adolescenti trans per proporre loro strade alternative – sarebbe forse più corretto dire “riparative” – che impediscano lo sviluppo di un’esistenza trans. Ecco perché le carriere alias sono entrate nel mirino.
In questo senso, la costituzione recente del gruppo italiano Genitori De Gender ha facilitato l’introduzione in Italia di questi modelli pseudo-scientifici di cui si sono facilmente appropriati – su fronti apparentemente divergenti – sia i movimenti anti-gender, sia i gruppi di quel femminismo radicale gender critical, riuscendo a ottenere visibilità mediatica in televisione e sulla stampa. Contrariamente al modello affermativo, il modello “riparativo” prevede, tra le altre cose – come si può leggere dalle guide di GenSpect promosse anche in Italia dall’associazione Genitori De Gender: di non utilizzare i nomi o i pronomi di elezione per non rischiare di confermare la transidentità; l’uso di un linguaggio sessuato in quanto determinato dalla biologia e non da convinzioni personali; di mantenere spazi (tra cui i bagni) divisi per sesso, ed eventualmente di utilizzare spazi neutri ma solo a uso singolo, per prendere solo alcuni esempi. L’idea “riparativa”, in generale, è di evitare la formazione di un ambiente che accetti l’identità trans o non binaria, nella convizione che questo imprigionerebbe la persona giovane o adolescente in una “carriera” trans in maniera irreparabile, definitiva e irreversibile, secondo l’ipotesi della disforia per “contagio sociale”.
A osservare la circolazione di questi discorsi sui social network, tra gli spazi prediletti di chi porta avanti queste istanze, appare evidente come la battaglia contro la carriera alias rappresenti un’opportunità politica di mobilitazione e di estensione del perimetro del consenso. Dopotutto la retorica dei bambini e dei minori da difendere è una strategia ben rodata, utile a spaventare un’opinione pubblica del tutto impreparata su questi temi, il che comprende un certo giornalismo e l’ampia platea della classe politica. L’appropriazione di queste istanze anti-trans da parte di universi apparentemente distanti è possibile proprio perché sono elaborate in termini “scientifici”, presuntamente neutri e oggettivi. Questa nuova forma permette alle matrici dell’attivismo neocattolico, di quello femminista radicale gender critical, e di quello tecnico-genitoriale di rimanere apparentemente e teoricamente distinti proprio mentre convergono politicamente contro l’identità di genere e le esistenze trans e non binarie. L’attacco alla carriera alias non è né il primo né l’ultimo episodio di questa battaglia transfobica.
Sorry, the comment form is closed at this time.