La prima magistrata col velo
Tratto da IlDubbio di Simona GiannettiMa io dico: quel velo in Iran è simbolo di una dittatura che uccide e tortura.
Ma io dico: quel velo in Iran è simbolo di una dittatura che uccide e tortura.
Avendo avuto il piacere di conoscerVi personalmente, mi prendo la libertà di inviarvi, more antiquo, queste poche righe, intanto per ringraziarVi ed esprimere il mio apprezzamento per la Vostra attività, volta a promuovere la mente laica, indipendentemente dalla credenza religiosa, atea o agnostica; ma intendendo il termine laico nel senso più esteso, riconoscibile in qualsiasi ambito del pensiero filosofico, etico, morale, ideale, politico, ideologico e consuetudinario. Il secondo motivo che mi stimola a scriverVi è il desiderio di indicare due criticità, secondo me importanti, anche se in ambiti diversi, e quasi del tutto trascurate. Una riguarda in particolare l’Italia, e si riferisce all’articolo 7 della Costituzione, che ingloba i Patti Lateranensi del 1929, con le modifiche apportate nel 1984 durante il governo Craxi. L’altra, di natura linguistica, riguarda l’asimmetria con cui sono espresse le credenze di chi ha un dio personale e di chi invece lo nega. Questi ultimi, sono linguisticamente rappresentati in negativo (non credenti, atei, eccetera) mentre sia costoro che coloro che praticano una religione sono portatori di contenuti di pari peso e dignità e non rispettivamente di un contenuto e di un’assenza di contenuto. Si trascura così il fatto che tutti siamo “nati per credere” (Nati per credere Telmo Pievani e Vittorio Giotto Torino Codice Edizioni) e definire qualcuno “senza dio”, equivale a ipotizzare che dio esiste.
Giovanna Cristina Vivinetto ha ricevuto un risarcimento di 11 mila euro. Condannato l’istituto Kennedy di Roma.
Giovanna Cristina Vivinetto è stata allontanata nel 2019 dall’istituto paritario Kennedy di Roma per la sua condizione di transessuale. Ora la scuola dovrà risarcirla con 11 mila euro. Vivinetto racconta oggi in un’intervista a Il Messaggero di aver cominciato a lavorare il 23 settembre del 2019: «Sono stata licenziata il 14 ottobre. Praticamente sono stata in classe una decina di giorni in tutto. Dopo tre giorni di malattia, la preside mi ha convocata e mi ha detto che dovevo andar via perché mancavo di professionalità». Poi ha capito di essere stata discriminata in quanto transessuale. «La scuola sapeva della mia situazione. Anche perché nel curriculum era riportato il premio letterario che ho vinto. E lì parlavo proprio di questo. Sapevano tutto anche prima di assumermi. Qualcuno deve essersi lamentato e mi hanno licenziata». Ma la sua carriera come insegnante non si è conclusa: «Dopo il licenziamento nella scuola paritaria ho insegnato in due scuole pubbliche. Una media e una superiore di Roma. Mi hanno accolta senza alcun problema e con la massima discrezione. A settembre scorso sono entrata di ruolo. Sto facendo l’anno di prova come docente specializzata sul sostegno. Per me è un’esperienza bellissima. Voglio restare al fianco delle persone con difficoltà e tenterò anche il concorso per diventare preside». Mentre la sua famiglia «è sempre stata molto aperta. Ho un fratello gemello e siamo stati liberi di esprimerci. I miei genitori mi hanno sempre sostenuta permettendomi di realizzarmi. La prima vera discriminazione l’ho subita in una scuola, ma quando ero già una professoressa».
Greenpeace: «Profondamenti allarmati per la nomina di Sultano al-Jaber». Climate Action: «Si dimetta da CEO dell'Abu Dhabi National Oil Corporation».
Seguendo le direttive del Presidente degli Emirati Arabi Uniti, lo sceicco Mohamed bin Zayed Al Nahyan, il vice primo ministro e ministro della Corte presidenziale, lo sceicco Mansour bin Zayed Al Nahyan, ha annunciato il gruppo dirigente della 28esima Conferenza delle parti dell’United Nations framework convention on climate change (COP28 Unfccc) che si terrà a Expo City Dubai dal 30 novembre al 12 dicembre 2023 e ha designato come presidente della COP 28 Sultan Ahmed Al Jaber, è ministro dell’Industria e della tecnologia avanzata (MoIAT). Una nomina che ha subito confermato le preoccupazioni di chi temeva che affidare, dopo il flop egiziano, la COP28 a una petro-monarchia assoluta che sta partecipando alla guerra di invasione nello Yemen non fosse una buona idea. Infatti, Al Jaber che porterà avanti l’agenda della COP28, in collaborazione con il segretario esecutivo dell’Unfccc Simon Stiell e il presidente egiziano della COP27 Sameh Shoukry, è a capo del gigante petrolifero statale Abu Dhabi National Oil Company (ADNOC), una delle più grandi compagnie petrolifere del mondo, Tracy Carty di Greenpeace International ha commentato: «Greenpeace è profondamente allarmata per la nomina dell’amministratore delegato di una compagnia petrolifera alla guida dei prossimi negoziati globali sul clima. Questo costituisce un pericoloso precedente, mettendo a rischio la credibilità degli Emirati Arabi Uniti e la fiducia che è stata riposta in loro dalle Nazioni Unite a nome delle persone e delle generazioni attuali e future. La COP28 deve concludersi con un impegno senza compromessi per una giusta eliminazione di tutti i combustibili fossili: carbone, petrolio e gas. Non c’è posto per l’industria dei combustibili fossili nei negoziati globali sul clima».
Abbiamo un governo di destra che non solo non nasconde i suoi vecchi tatuaggi fascisti ma dal quattro gennaio scorso ne esibisce fieramente uno tutto nuovo: una bandiera italiana a mezz’asta accanto al catafalco di Joseph Ratzinger. Molti (ma troppo pochi) hanno sottolineato la patente violazione del principio di laicità dello Stato, e dunque della sua essenza democratica che risiede nella capacità di rappresentare tutti i cittadini e non solo quelli di religione cattolica. C’è però un ulteriore indizio della volontà di Giorgia Meloni di operare una manovra che in gergo militare si direbbe “a tenaglia” e di assediare la cittadella della laicità che nonostante le sue mura sbrecciate ancora ci protegge. Lo ha fatto ignorando volutamente la volontà di Papa Bergoglio che aveva deciso di non solennizzare eccessivamente le esequie, scegliendo una linea di sobrietà, e certamente non ha previsto bandiere a mezz’asta o manifestazioni pubbliche di lutto. Le sue scelte, nei momenti in cui andavano prendendo forma nelle stanze vaticane, non sono certamente sfuggite né al nostro ambasciatore, né ai vertici del nostro Governo. Appare così tutt’altro che un’inconsulta, improvvida esagerazione l’imposizione a tutti i pubblici amministratori italiani della bandiera a mezz’asta sui palazzi municipali. Quel che il governo ha voluto fare è invece lanciare a meno di quattro mesi dal suo insediamento l’ennesimo messaggio identitario, riproponendo questa volta all’intero paese la storicamente ben nota alleanza tra clericali e conservatori. Per farlo ha operato una paradossale invasione delle prerogative Vaticane. Questa volta non abbiamo un cardinale eminente che si intromette nelle cose dello Stato e nelle politiche nazionali, ma lo Stato che si intrufola nelle cose del Vaticano per candidarsi ad un’alleanza con i suoi settori più conservatori.
Davanti all’ambasciata della Repubblica islamica a Roma attivisti e cittadini hanno accompagnato la consegna della petizione de La Stampa. Il direttore Massimo Giannini ha depositato otto scatoloni con le sottoscrizioni.
“Mai dimenticare, mai perdonare”. Davanti all’ambasciata della Repubblica islamica a Roma attivisti e cittadini hanno accompagnato la consegna della petizione de La Stampa per chiedere il rispetto dei diritti umani dei manifestanti iraniani che da oltre cento giorni il protestano contro il regime degli ayatollah.
Ai piedi della porta dell’ambasciata il direttore de La Stampa Massimo Gianni ha depositato i dieci scatoloni contenti le oltre trecentomila firme raccolte per salvare la vita di Fahimeh Karimi. Le nostre, le vostre firme per chiedere di fermare le incarcerazioni ingiuste, le torture, le condanne a morte di chi in Iran manifesta pacificamente per cambiare il proprio Paese.
Alfredo Cospito è a un passo dalla morte nel carcere di Bancali a Sassari all’esito di uno sciopero della fame che dura, ormai, da 80 giorni. Detenuto in forza di una condanna a 20 anni di reclusione per avere promosso e diretto la FAI-Federazione Anarchica Informale (considerata associazione con finalità di terrorismo) e per alcuni attentati uno dei quali qualificato come strage pur in assenza di morti o feriti, Cospito è in carcere da oltre 10 anni, avendo in precedenza scontato, senza soluzione di continuità, una condanna per il ferimento dell’amministratore delegato di Ansaldo Nucleare Roberto Adinolfi. Dal 2016 è stato inserito nel circuito penitenziario di Alta Sicurezza 2, mantenendo, peraltro, condizioni di socialità all’interno dell’istituto e rapporti con l’esterno. Ciò sino al 4 maggio 2022, quando è stato sottoposto al regime previsto dall’art. 41 bis ordinamento penitenziario, con esclusione di ogni possibilità di corrispondenza, diminuzione dell’aria a due ore trascorse in un cubicolo di cemento di pochi metri quadri e riduzione della socialità a una sola ora al giorno in una saletta assieme a tre detenuti. Per protestare contro l’applicazione di tale regime e contro l’ergastolo ostativo, il 20 ottobre scorso Cospito ha iniziato uno sciopero della fame che si protrae tuttora con perdita di 35 chilogrammi di peso e preoccupante calo di potassio, necessario per il corretto funzionamento dei muscoli involontari tra cui il cuore. La situazione si fa ogni giorno più grave, e Cospito non intende sospendere lo sciopero, come ha dichiarato nell’ultima udienza davanti al Tribunale di sorveglianza di Roma: «Sono condannato in un limbo senza fine, in attesa della fine dei miei giorni. Non ci sto e non mi arrendo. Continuerò il mio sciopero della fame per l’abolizione del 41 bis e dell’ergastolo ostativo fino all’ultimo mio respiro».
Ieri sull’A1 si è assistito, tra teppisti del Napoli e della Roma, a una follia che rappresenta però anche un caso limite: lo dimostra la quasi totale scomparsa di scontri fra ultras all’interno degli stadi, dove le misure adottate negli ultimi anni funzionano.
Una coda di 15 chilometri sull’arteria autostradale più importante del Paese piacevole non è, soprattutto per chi ci capita in mezzo. E fa ribollire il sangue sapere che si è rimasti fermi perché due opposte bande di delinquenti, sconsiderati, pseudotifosi, o comunque li si voglia chiamare, hanno deciso di approfittare del campo neutro autostradale per consumare scontri altrimenti impossibili nel contesto “d’elezione”, lo stadio. Ma è proprio quest’ultimo dettaglio a meritare una riflessione.
Gli ultras, i cosiddetti ultras, in particolare quelli di Napoli e Roma che ieri si sono scontrati fra l’area di servizio Badia al Pino e la carreggiata dell’A1, da molti anni non trovano più l’occasione di entrare in contatto nella cornice legata alle partite. È dal 2014, per la precisione, dal tragico sparo con cui un supporter giallorosso, Daniele De Santis colpì il partenopeo Ciro Esposito, morto dopo 50 giorni di agonia: da allora gli incontri fra azzurri e giallorossi vengono disputati in modo che le frange estreme delle due tifoserie non possano guardarsi neppure da lontano. Molto semplicemente, le trasferte di romanisti a Napoli e napoletani a Roma sono precluse in modo assoluto a chi risieda, rispettivamente, nel Lazio e in Campania. E la misura ha perfettamente funzionato: perché i gruppi ultras sono radicati essenzialmente nelle regioni, se non proprio nelle aree metropolitane, della squadra di riferimento. Se è certo per esempio che il Napoli gode di un seguito di tifosi molto vasto anche in altre parti del Paese, soprattutto al Nord, è vero pure che il cosiddetto tifo militante, o violento, non è in grado di organizzarsi lontano dalla città dove ha sede la squadra, lontano da Napoli nel caso specifico. E così, la consueta presenza, nelle trasferte del Napoli a Roma, di partenopei che risiedono in Emilia o in Lombardia non ha mai prodotto, in questi otto anni, il benché minimo problema di ordine pubblico. Esattamente come nell’ultimo Napoli-Roma giocato a Fuorigrotta, nell’aprile dell’anno scorso, quando presero posto nel settore ospiti loro assegnato alcune decine di fan giallorossi, tutti con tessera del tifoso, nessuno dei quali residente nel Lazio. Erano romanisti di Napoli e di altre città della Campania, dove il club della Capitale ha sempre goduto di un qualche seguito. Nessun incidente, nessun tentativo di guerriglia fra bande rivali.
La democrazia brasiliana è sopravvissuta. Tuttavia, come è accaduto negli Stati Uniti dopo l’assalto al congresso del 6 gennaio 2021, in futuro il paese dovrà superare una crisi politica che colpisce le basi del sistema democratico.
La domenica nera della democrazia brasiliana è stata la cronaca di una catastrofe annunciata, perché in Brasile abbiamo ritrovato tutti gli elementi che avevano caratterizzato la crisi degli Stati Uniti. E proprio come accaduto a Washington, anche in Brasile lo stato si è dimostrato più resistente di quanto pensassero gli insorti. E soprattutto l’esercito non ha risposto ai loro appelli.
Le similitudini sono evidenti: l’indebolimento delle regole democratiche, con la pericolosa contestazione dei processi elettorali senza alcuna prova e nonostante le smentite delle istituzioni di controllo indipendenti; un discredito permanente del mondo dell’informazione, che l’8 gennaio ha portato all’aggressione di sei giornalisti; e infine un rifiuto della democrazia stessa, i cui simboli sono stati saccheggiati da un esercito di esaltati.
Legambiente: “Scudo e disposizioni penali pro Acciaierie d’Italia sono un inaccettabile macigno scagliato su ambiente e salute dei cittadini di Taranto”
“Lo scudo e le altre disposizioni penali contenute nel decreto governativo sugli impianti di interesse strategico nazionale, o -più banalmente- pro Acciaierie d’Italia, nonché ultimo ed ennesimo salva-Ilva, sono assolutamente ingiustificabili” – dichiarano Stefano Ciafani, presidente nazionale di Legambiente, Ruggero Ronzulli, presidente di Legambiente Puglia e Lunetta Franco, presidente di Legambiente Taranto – “Siamo di fronte a un atto che costituisce una grave manomissione dell’autonomia della magistratura cui si detta cosa può o non può fare e, con la paradossale scusa del “ragionevole” bilanciamento tra l’interesse all’approvvigionamento di beni e servizi essenziali per il sistema economico nazionale e valori costituzionalmente garantiti, si getta un inaccettabile macigno sul diritto all’ambiente e alla salute dei cittadini di Taranto”.
Le proteste servono a convincerci che l’unico modo che abbiamo per risolvere il problema è agire tutti e subito. Perché soffermarsi sul dito mentre gli attivisti ci indicano la luna?
Negli ultimi mesi abbiamo visto decine di attivisti ambientali lanciare vernice fresca contro i quadri esposti nei musei, bloccare le strade romane, impedire la partenza dei jet privati. Alcune settimane fa gli attivisti di “ultima generazione” hanno colpito anche la facciata del Teatro alla Scala. Di fronte a questi atti, la reazione di dissenso e condanna da parte della società civile sembra unanime – basta leggere qualche commento nei social network per cogliere la rabbia collettiva. Qualche forma di sostegno l’hanno ricevuta solo gli attivisti di Linate, complice il recente dibattito sull’inquinamento dei jet privati, rei di consumare in quattro ore l’equivalente di un cittadino medio in un anno.
“Smettete di indorarvi la pillola!”, o meglio “Arrêtez de vous dorer la pilule!”, come si dice in francese. È proprio in Francia infatti che si è riaperto il dibattito su un tema che in Italia ancora fatica a trovare spazio: la contraccezione maschile. La scorsa estate il quotidiano francese Libération ha pubblicato in prima pagina un appello per chiedere al governo di portare avanti la discussione e la ricerca sugli anticoncezionali maschili. L’appello, accompagnato da una petizione online sulla piattaforma Change.org e da una campagna con l’hashtag #ContraceptonsNous, ha raccolto più di 31mila adesioni. Tra i primi firmatari ci sono medici, psichiatri, andrologi, attivisti, giornalisti e scrittori.
Nel paese già da alcuni anni esistono diversi collettivi di uomini che discutono delle opzioni a disposizione e cercano di creare consapevolezza su questo tema, per spingere la comunità scientifica a rendersi conto delle attuali esigenze delle coppie. Fino a oggi, infatti, sono state soprattutto le donne a farsi carico della contraccezione: esiste la pillola anticoncezionale, l’anello, il cerotto, il diaframma, la spirale, la pillola del giorno dopo e diverse altre opzioni. E per gli uomini? Le alternative sono poche e scarsamente impiegate, come vedremo.
In Italia la discussione sulla contraccezione maschile è ancora acerba. Emblematico è il fatto che l’ISTAT abbia pubblicato una rilevazione sulla salute riproduttiva della donna (e non degli uomini), quando nel frattempo è ancora difficile misurare anche solo quanti uomini usino regolarmente il preservativo. Nel capitolo sulla contraccezione femminile, i dati mostrano che il metodo più utilizzato dalle italiane sia proprio il preservativo (41%), seguito dalla pillola (27%) e dal coito interrotto (20%): quest’ultimo è considerato un metodo non sicuro secondo l’indice di Pearl, eppure siamo il Paese europeo che più lo pratica.
Nel 2016 anche la Società Italiana di Ginecologia e Ostetricia (SIGO) ha pubblicato un’indagine che mostra come solo il 30% degli intervistati ritenga che la contraccezione sia una responsabilità di entrambi nella coppia. Per ben il 62%, quasi 2 su 3, è un compito che riguarda solo e unicamente la donna. E in caso di gravidanza indesiderata, per il 41% si tratta di un “colpo basso” del partner.