C’è un’allegra brigata alla firma del ddl, capitanata dal vice-capogruppo a Montecitorio Domenico Furgiuele. Il problema di Furgiuele e di molti altri che ne condividono le urgenze? Troppo pochi matrimoni in chiesa. Nel paese del “digital divide”, del “social divide”, dell’ascensore sociale bloccato, delle macroscopiche differenze in crescita fra le opportunità offerte ai cittadini, la priorità è dunque chiudere un altro “divide”, quello matrimoniale che oppone sindaco e parroco, istituzioni laiche e presidi confessionali. E lo mettono nero su bianco, visto che nell’introduzione alla proposta riportata da Repubblica si dice che mentre le unioni con rito civile sono cresciute rispetto ai livelli pre-pandemici (+0,7% nel 2021 sul 2019) quelli con rito ecclesiastico continuano inesorabilmente a calare.
E mentre questo è o dovrebbe essere un problema pastorale, tutto interno alla chiesa cattolica che fra l’altro non è che faccia poi molto per rendere più agevoli e serene le unioni di chi crede ma magari qualche esitazione ce l’ha, una pattuglia di leghisti al primo mese di legislatura pensa bene di introiettarla fra le emergenze del paese. Perfino con una certa ambizione dottrinale. “Molte coppie sono dubbiose sui corsi prematrimoniali, i quali hanno una finalità ben precisa e spesso sottovalutata: cercare di far capire alla coppia se si è realmente pronti nel prendere la decisione di sposarsi” si legge nel catechetico ddl.
Dimenticando dunque,
con questa vergognosa detrazione d’imposta del 20% per un massimo di 20mila euro da far valere in cinque anni, che uno
stato civile e laico dovrebbe sostenere, senza distinzione, ogni cittadino
meglio se con provvedimenti individuali o rapportati al reddito del nucleo famigliare che legati a uno sconto per una libera scelta. Tant’è, l’industria del wedding è forte ma ancora più forte è la Conferenza episcopale italiana. Fra l’altro, la maxi-detrazione non sarebbe ovviamente per tutti ma solo per chi è italiano da almeno dieci anni – prima gli italiani, anche all’altare – con un reddito inferiore ai 23mila euro considerando entrambi i nubendi. Un provvedimento da oltre 700 milioni di euro, una follia assoluta quando non mancherebbero i fronti su cui spenderli in modo giusto ed equo.
In serata è arrivata la precisazione di Furgiuele, che in realtà aveva già provato una mossa del genere alcuni anni fa: “La proposta di legge a mia prima firma, volta a incentivare il settore del wedding, che per questioni di oneri prevedeva un bonus destinato ai soli matrimoni religiosi. Durante il dibattito parlamentare sarà naturalmente allargata a tutti i matrimoni, indipendentemente che vengano celebrati in chiesa oppure no“. Troppa grazia vice-capogruppo. Anche se il provvedimento rimane strampalato: non è obbligatorio sposarsi, perché soldi pubblici devono andare nelle tasche di una festa privata, che sia laica o religiosa, spesso con costi e spese del tutto sovrastimati? D’altronde è la stessa obiezione che si potrebbe sollevare per una grande quantità di bonus ed elargizioni varie, da quello per le tv a quello per le automobili, dove tuttavia spesso non manca una ratio di fondo che in questo caso invece non c’è. O meglio, c’è eccome: è l’autogestione della Lega.
Tornando alla disperazione del Carroccio, la sostanza infatti non cambia: Salvini e i suoi hanno un turbolento bisogno di sfidare continuamente Fratelli d’Italia e la formula dei bonus premia giornalisticamente perché anche se non se ne farà nulla garantisce un ritorno in termini di consenso immediato. Tuttavia il rischio di un fronte comune su queste proposte da Stato etico rimane: c’è insomma il rischio concreto che fra qualche tempo chi sceglierà la chiesa invece del comune o di un’altra formula civile possa tenersi in tasca 20mila euro di tasse, iniziando a costruire – pezzo dopo pezzo – un sistema di sottili discriminazioni nelle libere scelte delle persone.
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