12 Mag CONTRO LA SCUOLA COMPETITIVA
Tratto da Today di Nicolò Zambelli
I nostri studenti stanno male, ed è un fatto. Non lo si dice per giustificare certi tipi di comportamento in quella retorica tutta italiana che dipinge le nuove generazioni come scansafatiche e con poca voglia di fare. Lo confermano diverse ricerche che in questi mesi sono uscite e che hanno analizzato lo stato di salute dei giovanissimi dietro ai banchi di scuola. Ma non solo, lo evidenziano anche diversi avvenimenti che sono successi in alcuni licei italiani nelle ultime settimane, come la fuoriuscita di massa di 60 alunni che hanno deciso di lasciare il liceo classico Giovanni Berchet di Milano a marzo 2023 per problemi di ansia, stress e competizione.
Nuova tendenza o è sempre stato così? A fare da catalizzatore di un problema che riguarda generazioni di ragazzi ci ha pensato nella quasi totalità la pandemia: sì, perché c’è un prima e un dopo il Covid-19 non solo per quanto riguarda l’economia e la concezione di salute pubblica, ma anche e soprattutto nell’idea di scuola e di istruzione dei giovani italiani.
Una scuola competitiva
Il 30 aprile 2023 a Milano si è svolta un’altra occupazione del liceo Alessandro Manzoni. Gli studenti hanno lanciato l’iniziativa per riportare sul tavolo della politica e delle istituzioni il tema della salute mentale e del benessere dietro ai banchi. I rappresentanti dell’istituto hanno promosso l’iniziativa con un sondaggio che è stato compilato da più della metà della scuola e da cui è emersa una situazione preoccupante per il benessere psicofisico. L’iniziativa – organizzata dal collettivo Antagonista – ha avuto come conseguenza un cambiamento nel sistema di valutazione: ora gli insegnanti saranno obbligati a scrivere il voto accompagnato con una motivazione scritta.
“Lo studio, più che fonte di arricchimento e passione, è sinonimo di ansia, frustrazione e sofferenza a causa del peso della competizione e del giudizio attraverso il voto”. Sono le parole che hanno accompagnato l’iniziativa del collettivo al liceo Manzoni. Dimostrazioni simili si sono svolte negli scorsi mesi anche in altre città come a Bologna, Cagliari, Napoli e Roma. La risposta delle scuole è stata un ripensamento del sistema di valutazione degli studenti, ridimensionando il voto e magari accostandolo a motivazioni scritte. C’è anche il caso di chi ha deciso di eliminare del tutto il voto numerico, come il liceo Giordano Bruno di Mestre o il Morgagni di Roma, che questo sistema markless l’ha introdotto ben otto anni fa.
Competizione e giudizio sono i due elementi principali che preoccupano la maggior parte dei giovani. Un sistema pensato che in teoria funziona e ha funzionato per anni, ma che forse non si sposa bene con la volontà educativa di rimettere lo studente e le sue passioni al centro, limitando il focus soltanto sull’ottenimento di un buon “numero” piuttosto che sull’apprendimento. Insomma, il parere sembra essere quello di una scuola che “giudica” piuttosto di una che “educa”. Cosa è cambiato? È arrivata la pandemia e siamo stati tutti più lontani. La distanza, si sa, fa emergere i problemi e l’impatto delle piattaforme di meeting potrebbe aver accentuato il disagio psicofisico già presente nei ragazzi ma nascosto sotto un tappeto di “normalità” che faceva accettare certi tipi di dinamiche.
Il cigno nero della pandemia
Su quanto abbia influito il Covid-19 sulla mente dei nostri ragazzi si è interrogato il sindacato Rete degli Studenti Medi, l’organizzazione che si occupa di tutelare i giovanissimi. Attraverso una ricerca hanno intervistato più di 30mila studenti tra marzo e aprile 2022 con dei questionari che hanno tracciato un quadro pre, durante e post pandemia abbastanza spiacevole. Ne abbiamo parlato con la rappresentante Camilla Velotta, delegata al benessere psicologico di Rete degli Studenti Medi.
Una prima domanda che le abbiamo rivolto è legata ai motivi che hanno spinto il sindacato a organizzare una così ampia ricerca sociale per indagare gli effetti della pandemia. Dopo il Covid-19, Camilla Velotta ci ha spiegato come abbiano notato un aumento dei disagi giovanili, a partire da loro stessi: “Abbiamo iniziato a interrogarci su come stessimo, i primi a chiedercelo sono stati i rappresentati del sindacato dei pensionati (la Cgil, ndr) e dopo vari incontri tra di noi, abbiamo capito che qualcosa non andava, c’erano dei problemi”. Solo in seguito hanno deciso di estendere la ricerca a livello nazionale, cercando di raccogliere più pareri possibili lungo tutto lo stivale: se erano emersi disagi psciologici all’interno del loro sindacato, ci saranno stati altri milioni di giovani nelle stesse condizioni. E così è stato.
La ricerca ha coinvolto 30mila studenti, sia universitari che non, e i risultati, in sintesi, sono questi:
- il 60,3 per cento degli intervistati è molto preoccupato della propria salute mentale.
- Durante la pandemia, il 28 per cento ha avuto disturbi del comportamento alimentare, il 14,5 per cento ha messo in atto episodi di autolesionismo, il 26,2 per cento ha usufruito di un servizio di supporto psicologico.
- Per più della metà degli stato un aumento di noia, demotivazione, solitudine e ansia.
- Il 90 per cento vorrebbe un supporto psicologico a scuola.
- Al rientro, circa uno studente su tre ha espresso disagio per la ripresa di verifiche, interrogazioni ed esami in presenza.
“Quanto emerso dalla ricerca dipinge un panorama generale di disagio profondo” ha commentato Velotta, ma ha tenuto a specificarci come non ci sia un clima di arrendevolezza da parte dei giovani, anzi: “Credo che la nostra generazione abbia cercato di slegarsi dal tabù del benessere psicologico, cercando il più possibile di eliminare la concezione secondo cui è qualcosa che debba passare in secondo piano”. Se da una parte infatti i giovani oggi hanno trovato la forza per cercare di cambiare il sistema, Velotta ha spiegato come – da parte del governo – le cose potrebbero invece prendere una direzione diversa. Il motivo? Una differente concezione di “scuola” che si è evidenziata – ha spiegato – a partire dall’introduzione “…e del merito” nel nome ufficiale del ministero durante l’insediamento del governo: “È una scuola che si basa solo sulla competizione, si è intrapresa una strada che crea differenze e disuguaglianze”, ha detto. Concezione, questa, che è forse la più grande causa dei disagi psicologici emersi dall’inchiesta.
La proposta di legge per una “nuova scuola”
Rete degli Studenti – in risposta anche a quanto accaduto al liceo Berchet di Milano e come proposta per tutto l’esecutivo – ha presentato un disegno di legge per cercare di dare delle soluzioni. Il primo punto vede l’istituzione in ogni scuola di un’assistenza psicologica gratuita gestita da un team multidisciplinare che sappia intervenire sui disagi che attanagliano i giovani, come i disturbi del comportamento alimentare, il bullismo o la disforia di genere. In secondo luogo hanno chiesto l’introduzione di un percorso che educhi sulla salute mentale e che la paragoni a quella fisica, in modo da eliminare quasi totalmente nella concezione (almeno) dei giovani lo stigma dello psicologo visto come “qualcosa da nascondere”. Infine, è previsto un’ampliamento del rapporto tra scuole e organi territoriali: i counselor (gli attuali organi di aiuto psciologico nelle scuole) non riescono a gestire e seguire tutte le richieste da parte degli studenti per una mancanza di personale. Un maggiore coordinamento con le aziende sanitarie locali permetterebbe di accogliere tutte le domande potenziando consultori e spazi di ascolto già esistenti.
L’introduzione di uno psicologo nelle scuole è richiesto da nove studenti su dieci, ma oggi il governo ha previsto soltanto l’inserimento di una nuova figura, il “docente tutor”. Più di un insegnate, meno di uno psicologo, la missione di questo nuovo professionista sarà quella di togliere i disagi di stress e ansia dalle aule, ma per Camilla Velotta quest’introduzione non rappresenta una soluzione definitiva, anzi: ” Credo che andrà ad aggiungere altre problematiche, creando ulteriori squilibri all’interno dell’aula”. Una legge che cerca di appianare le differenze, ma che in realtà ne produrrà altre “tra chi è seguito e chi no” spiega la rappresentante. Le disuguaglianze all’interno dell’aula sono una delle cause che creano maggiore competizione, e quindi maggiore disagio.
Quello che serve – secondo la sindacalista – è un ripensamento dei metodi didattici e una diminuzione del numero degli studenti nelle “classi pollaio” che troppo spesso impediscono al professore di arrivare efficacemente a ciascun alunno: “Un nuovo metodo di apprendimento – dice Velotta – potrebbe essere un modo per appianare le differenze trai singoli studenti e permettere di far arrivare a tutti lo stesso livello di conoscenza, senza differenze”. E qui si è aperto il macrotema della riorganizzazione del sistema scolastico, che riguarda una riforma annunciata da decenni ma che ha sempre faticato a vedere la luce.
Una scuola antica e poco “Gentile”
“Viviamo in un sistema scolastico che è obsoleto, l’ultima riforma scolastica è stata con Giovanni Gentile nel 1923, cento anni fa” ha detto Camilla nel spiegarci come oggi non sia più sostenibile continuare a usare regole di un sitema pensato un secolo addietro. Il mondo è cambiato, c’è stato lo sviluppo tecnologico e il Paese ha un nuovo volto, nuovi valori e nuovi problemi. E se la scuola è “palestra di vita” è tempo di introdure attrezzi più moderni.
Una prima proposta del sindacato si lega alla tendenza generale già presente nell’ultimo periodo che vede la scomparsa dei voti numerici come metodo di valutazione. La scuola – ha spiegato Velotta – non favorisce l’apprendimento perchè: “Il sistema si costruisce soltanto su quanto bene si riesce a imparare una nozione a memoria e in base alla performance si è ricompensati con un numero”. Ha spiegato come si tratti di un sistema prettamente nozionistico che non favorisce l’apprendimento, ma soltanto l’assorbimento di concetti che – prima o poi – verranno dimenticati. La ragione per cui si studia, alla fine, non è per imparare, ma per arrivare a una valutazione positiva ed evitare conseguenze negative da parte di professori o genitori: “La scuola che ti forma come cittadino – dice Velotta – non esiste più”.
Le proposte di Camilla non si sono limitate soltanto al sistema di vautazione ma hanno toccato anche altri aspetti della vita scolastica, come il Pcto o “Alternanza scuola lavoro”. Il progetto che più di tutti dovrebbe far interfacciare gli studenti con il mondo del lavoro troppo spesso fallisce e trasforma quelle che dovrebbero essere esperienze formative in vere e proprie tragedie. A livello concettuale e formativo, spiega Camilla, è giusto che i giovani si preparino al mondo del lavoro e ne facciano esperienza. Quello che però è sbagliato è vedere replicate certe dinamiche tossiche che sono presenti nel mondo degli adulti, come sfruttamento, umilazione e nonnismo. Riflessi, questi ulitmi, di una scuola che da tempo fallisce nel’educare appieno. In più, sempre su questo tema, ha condannato la decisione del governo di istituire un fondo di risarcimento per le vittime del Pcto introdotto con il decreto del primo maggio: “Il governo sta ammettendo che gli studenti possono morire a scuola. È preoccupante”.
Passi avanti dal governo?
Le posizioni di Rete degli studenti e le soluzioni che hanno portato per cercare di risolvere il problema sono fattibili, ma richiedono tempo e compromessi. La scuola è periodicamente al centro di cambiamenti e adattamenti che affiancano le scelte del governo in carica, ma forse ciò che servirebbe è una rivoluzione nella concezione di apprendimento ed educazione per favorire una maggiore serenità dietro ai banchi di scuola.
Le nuove generazioni vivono spesso con diffidenza il futuro, nonostante non manchi la curiosità nell’esplorarlo: lo conferma sempre la ricerca che abbiamo citato sopra. Se la scuola si propone di essere l’ambiente che forma e prepara i giovani a quello che sarò il mondo adulto, il “come” avviene tale apprendimento non può essere messo in secondo piano. Con un evento che ha profondamente colpito la mente e le emozioni di tanti giovani, si è visto anche un aumento di casi e di depressione, autolesionismo e altri disturbi nei numeri dei ricoveri degli ospedali pediatrici – come raccontato qualche settimana fa da Marco Esposito. Il governo sta avviando una ricerca per procurarsi dati che indaghino gli effetti della pandemia sulla psiche degli studenti. La ricerca è promossa dall’Autorità garante dell’infanzia e dell’adolescenza insieme al ministero della Salute e coinvolgerà anche i genitori, oltre che i bambini più piccoli e gli adolescenti.
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