26 Gen Terza guerra mondiale? Alcuni appunti per evitarla
Tratto da Satyagraha, articolo di Paolo Candelari
Con una fortunata espressione papa Francesco coniò nel lontano 2014 il termine “terza guerra mondiale a pezzi” per raffigurare l’espandersi ed il moltiplicarsi dei conflitti armati nel mondo; proprio nel 2014 iniziarono i combattimenti nel Donbass, si era in presenza della guerra civile siriana, che si protraeva dal 2011, coinvolgendo direttamente la Russia, per la prima volta con operazioni all’estero dalla caduta dell’URSS, oltre a diversi altri Paesi e fazioni del Medio Oriente, che peraltro era (ed è) pieno di conflitti; le mai terminate guerre in Africa, il conflitto tra Armenia e Azerbaigian, e tanti altri ancora.
Il nuovo millennio si era aperto all’insegna della globalizzazione, mentre gli Stati Uniti perseguivano il “new american century”, un vero e proprio progetto politico strategico definito in documenti ufficiali.
Questa strategia chiuse il decennio di speranza seguito alla guerra fredda e portò gli americani a combattere in ogni parte del mondo.
Il nuovo secolo americano non durò neanche un decennio, lasciando il posto a quello che Limes ha chiamato Caoslandia; ossia il progressivo venir meno di un equilibrio tra le potenze, e l’impossibilità a gestire l’intero ordine internazionale da parte di quella ritenutasi vincitrice assoluta, ha generato guerre “glocali” del tutto incontrollate; si tratta di conflitti con radici locali, dovuti a contese territoriali, sfasciamento di imperi e stati multinazionali, rinascita di nazionalismi, una resistenza alla globalizzazione che ha assunto spesso l’attaccamento a tradizioni del passato.
Ma nel XXI secolo nessuna guerra può rimanere locale; apparentemente non hanno legami, ma impattano sugli equilibri internazionali, sull’economia, sulla distribuzione delle risorse; oltre all’intreccio dei protagonisti con coinvolgimento indiretto, e talvolta anche diretto, delle potenze, sia grandi che regionali.
Anche per la globalizzazione possiamo intonare il “de profundis”.
Val la pena soffermarsi un attimo su quest’ultimo aspetto; in realtà dovremmo parlare di globalizzazione liberista, trattandosi dell’unificazione del mondo, soprattutto economica, all’insegna della concezione che occorre ridurre al minimo l’intervento pubblico, comunque inteso; e che la competizione economica senza regole possa sostituire i conflitti sia politici che sociali del passato; appunto il liberismo, da non confondersi col liberalismo.
L’opposizione a questa globalizzazione liberista, inizialmente nata, in Occidente soprattutto, sotto un segno di sinistra, di contestazione al capitalismo e al sistema finanziario globale, prende poi col tempo una dimensione decisamente sovranista, che è un concetto di destra, prevalendo la difesa della tradizione, delle prerogative, a volte dei privilegi, ma anche della cultura.
Ad essa si possono far risalire fenomeni diversi e contradditori: dal califfato, alla pretesa di restaurare l’impero russo, dall’islamismo al suprematismo bianco in America, ai fenomeni sovranisti europei, al voler trasformare uno stato laico come l’India in una nazione indù. E l’elenco potrebbe continuare.
Oggi i pezzi si stanno pericolosamente ricomponendo: Africa subsahariana, Ucraina, Palestina, estremo oriente. E i protagonisti pure: la Russia alla ricerca dell’impero perduto, l’Iran alfiere dell’islam teocratico, la Cina che svolge la sua politica di potenza commerciale, ma radicale fautrice della non ingerenza sfida la grande superpotenza, ora anche sul piano del riarmo.
L’occidente si sente attaccato e vuole ristabilire la sua supremazia, costretto a usare la sua immensa potenza militare. Prossima crisi annunciata Taiwan.
Si stanno generando 2 schieramenti, e la ragione per cui tutto l’occidente è compatto è molto semplice: ha paura, sicuramente di perdere quell’egemonia che ha da almeno 3 secoli, ma anche di veder attaccate quelle libertà fondamentali su cui, bene o male, si sono cotruite le democrazie liberali occidentali.
Lo schieramento antioccidentale ha 3 paesi guida: Russia, Cina, Iran, con 3 regimi che sono la negazione non tanto del capitalismo che non contestano, anzi accettano e consolidano, ma dei valori democratici e dei diritti umani, anch’essi prodotto della cultura occidentale.
Le opposizioni al sistema e al militarismo imperante in questi paesi sono fortemente filoamericane; si sta ripetendo quanto successo nell’est europeo.
La contraddizione in cui anche noi siamo immersi è questa: contro l’Occidente capitalistico e global-liberista non ci sono avversari democratici, popolari, neanche alternativi, né nel pensiero, né nei fini, né nei metodi, e neanche nella struttura sociale. Ci sono autocrazie basate su un ordine gerarchico e patriarcalista, dove conta il principio di autorità; esse vogliono partecipare al grande banchetto liber-capitalista da protagonisti, al pari di USA ed Europa, e non ammettono ingerenze, intendendo per tali, ogni tentativo di portare e sostenere in quelle società la cultura dei diritti umani, che siano sponsorizzati da stati e ricche fondazioni, con l’intento di guadagnarle all’ordo-liberismo, o da ONG e movimenti popolari con l’intento di solidarizzare con chi è vittima di soprusi e persecuzioni.
È sul primo aspetto (gestire da pari il mondo) che si è consumata la rottura tra gli USA e la Russia di Putin dal 2008 circa in avanti.
È sul secondo che le autocrazie si irrigidiscono e rendono più crudeli i loro regimi.
Una prima conseguenza è che le opposizioni alle autocrazie, che noi diciamo e vogliamo sostenere, sono fortemente filooccidentali, vedono negli Stati Uniti e nell’Unione Europea un faro, un mondo ideale, coloro che possono aiutarli. Questo viene fuori ogniqualvolta parliamo con membri di queste opposizioni: essi sono portati a vedere le critiche alla NATO e all’Occidente come frutto della propaganda di Putin piuttosto che degli ayatollah o di chi altro.
In base al principio “il nemico del mio nemico è mio amico” e del viceversa “l’amico del mio nemico è mio nemico”, sostengono americani e loro alleati contrastando tutte le forze popolari anticapitaliste antiamericane (l’opposizione iraniana sostiene Israele).
Noi rischiamo di cadere nella stessa dinamica: vedere in chiunque si opponga agli Stati Uniti un sostanziale amico, diffidando di chi si oppone loro: o lo ignoriamo, o lo avversiamo apertamente, o facciamo finta di non vedere e ci costruiamo un’immagine che in realtà non esiste.
A cavallo degli anni 2000 si era diffuso il movimento cosiddetto noglobal, in realtà il più globale e intarnazionalista dei movimenti sociali dai tempi delle varie Internazionali. Erano i Social Forum, qui in Italia la rete Lilliput, quello che nel 2003 venne definito “l’altra grande potenza”..
Esso si è sciolto, disperso, perché i movimenti devono diventare soggetti politici, organizzarsi; finché rimangono spontanei sono come i fuochi di paglia, intensi, visibili, fanno la bella fiammata, ma si spengono con la stessa facilità e velocità con cui si sono accesi.
La nonviolenza e i suoi movimenti possono contribuire alla ricerca di un’alternativa: nel pensiero e nell’azione di Gandhi, come dei movimenti che a lui si ispirano, ci sono spunti e idee che possono costituire la vera alternativa ad un mondo che ha completamente perso la bussola e sta correndo verso il disastro. L’azione di molti, apertamente nonviolenti, o semplicemente “di buona volontà” stanno producendo teorie e pratiche che possono costituire motivo di speranza.
A patto di non rinchiudersi in se stessi, accontentandosi di una testimonianza isolata, ripetendo alcuni slogan giusti come giaculatorie.
Occorre innanzitutto approfondire, studiare, affrontare le problematiche senza infingimenti e senza nascondersi le difficoltà; saper unire lo slancio utopistico ad obbiettivi realizzabili, coscienti che il compromesso è il segreto della vita politica, senza di cui si scade facilmente nel velleitarismo, o nel fanatismo. Solo così la nonviolenza può diventare cultura e stile politico diffusi.
Lasciando ad altri il compito di favorire e costruire movimenti popolari di massa (senza i quali anche il movimento per la pace annaspa), a noi spetta far crescere l’opposizione al riarmo, innanzitutto alle armi atomiche, fornire strumenti per i metodi alternativi alla difesa armata.
Questo deve diventare coscienza comune popolare.
La chiarezza e la coerenza degli obbiettivi deve portare a coinvolgere più gente, più forze politiche e sociali, non essere strumento escludente.
L’egemonia non viene mai dall’autoreferenzialità; essa la si esercita in un movimento composito tra diversi, non isolandosi, e non la si ottiene per decreto, ma per consenso.
Dobbiamo avere il coraggio di interfacciarci con forze politiche, sociali, sindacali, religiose che oggi non tutte e non in tutto condividono le nostre posizioni, ma che noi, con l’unica forza di cui disponiamo, la persuasione, dobbiamo portare su posizioni un po’ più vicine, “passin passetto” mi verrebbe da dire.
C’è un punto di equilibrio tra chiarezza e apertura popolare che dobbiamo perseguire; le alternative sono apertura totale annacquando gli obbiettivi per comprendere tutti ma non dire niente, o, all’opposto intransigenza ideologica ma rimanere isolati, sono entrambe inutili e dannose.
Chiarezza è invece necessario farla nel ripudio di ogni dittatura; la nostra opposizione a Putin, agli ayatollah, deve essere chiara senza se e senza ma; come la pretesa della Cina (ex)comunista di dettar legge ai taiwanesi non ha senso né giustificazione alcuna; lasci liberi i tibetani, i cittadini di Hong Kong, le minoranze religiose perseguitate, gli studenti di Pechino; una Cina siffatta potrà poi legittimamente candidarsi all’unificazione.
Il punto di equilibrio di cui sopra lo vedo in 5 punti su cui mi pare ci sia già una sostanziale unità tar i movimenti per la pace italiani:
– Disarmo atomico totale tramite adesione al TPNW;
– Riduzione delle spese militari;
– Una politica estera di pace e non di guerra che unisca il sostegno al rispetto per i diritti umani al metodo della trattativa e del dialogo nei rapporti tra gli Stati;
– Sostegno a chi in ogni parte del mondo si oppone alla guerra (obbiettori di coscienza);
– Studio e costituzione di alternative alla difesa armata: corpi civili di pace e forze nonviolente di pace.
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