QUANTI ABUSI IN NOME DELLA “LIBERTÀ”

Tratto da La Repubblica di Gustavo Zagrebelsky

È un concetto più volte strumentalizzato nel corso della Storia. Chi esercita il potere può tradurla in oppressione. Subirla significa sperimentare la violenza. Se ne parlerà alla Biennale Democrazia di Torino.
La norma della libertà è ignota a me, come a tutti noi. Lo stesso per la giustizia, l’uguaglianza, la democrazia, l’umanità e tante altre bellissime cose. La libertà si invoca contro il male che impedisce al bene di trionfare o semplicemente contro i fastidi che impediscono di vivere tranquillamente nel proprio astuccio privato. Libera nos a malo, dice l’antica preghiera.
Si presuppone in questo modo che la vita sia una grande o piccola lotta tra il bene e il male: una lotta che può lasciare indifferenti solo gli ignavi, quelli che non hanno diritto di stare in Paradiso, ma nemmeno all’Inferno.

Nella filosofia, nella teologia, nei programmi dei partiti e dei governi, nei convegni e nelle conferenze intelligenti che tanto ci piacciono, nelle strade e nelle piazze, ciascuno ha da dire la sua ma, se ne metti due insieme, capisci che ciascuno, la libertà, la pensa a modo suo. Allora, concetti che ti sembravano universali si rivelano contraddittori, singolari, parziali o addirittura settari. Singolari sì, ma hanno la pretesa di valere per tutti, anche per chi non la pensa come te. Hanno, per così dire, un aspetto bonario, ma la sostanza è aggressiva. Essendo valori assoluti devono valere assolutamente.

Siamo tutti per la libertà! Dove ci sono violenza, stupri, arbitri, oppressioni, pregiudizi, conformismo, ignoranza, ossessioni, paure, sfruttamento, schiavitù, s’invoca e si combatte per la libertà. Questo è tanto giusto e ovvio che non ha bisogno di commento. Meno ovvio è che la si invochi anche al contrario, per schiacciarla, la libertà. È una bella parola, a disposizione di tutti. Il marchese de Sade è stato a suo modo un campione della libertà: libertino, si dice, ma il libertinaggio è libertà al massimo grado.

Le cose ignobili sono sempre quelle che dovrebbero attirare per prime la nostra attenzione. Prendiamo nota che in nome della libertà, della libera ricerca della felicità, come sta scritto nella Dichiarazione d’indipendenza americana del 1776, l’immenso West si considerò spazio vuoto a disposizione dei coloni e dell’esercito federale, e lì si consumò uno dei maggiori genocidi che la storia abbia conosciuto, contro la “grande nazione indiana” che popolava l’intero continente. La Libertà, il colosso con la fiaccola in mano, accoglie il viaggiatore che sbarca a Manhattan, ignaro che quella terra fu “acquistata” dagli olandesi per poche perline e cianfrusaglie dalla tribù dei nativi che non conoscevano che cosa volesse dire proprietà. In nome della libertà persero la loro terra e, molti, la loro vita. Che cosa di diverso fecero i conquistadores nel centro e nel sud delle Americhe? Erano alla ricerca dell’oro, ma dicevano d’essere venuti a liberare quei selvaggi dalla superstizione, dai sacrifici umani, dal cannibalismo.

Neppure Adolf Hitler diceva d’essere contro la libertà. Al contrario. Le camicie brune e poi le SS erano i difensori della “vera” libertà della Germania e dell’Europa minacciate dal complotto giudaico-bolscevico. Di battaglia per la libertà si parlava nel momento in cui si scatenava una guerra mondiale e si uccidevano milioni di persone nelle camere a gas. Le goliardiche camicie nere nostrane, dal canto loro, promettevano libertà alle “faccette nere belle Abissine” e, intanto, l’esercito spargeva iprite sulle popolazioni dell’Eritrea. Cambiava la miscela politica, ma anche i massacri dei kulaki e “purghe” staliniane si giustificavano con la libertà insidiata dai nemici del popolo. Non dimentichiamo, infine, che non c’è stata alcuna impresa coloniale, del passato e del presente, che non abbia issato la bandiera della libertà. Tutti amano presentarsi come “liberatori” e non c’è invasione o bombardamento che non venga spacciato come un dovere verso la libertà.

È facile constatare come questa parola (insieme, ad esempio, la giustizia e la uguaglianza) suona diversamente sulle labbra di chi sta in alto e di chi sta in basso nelle gerarchie del potere, dei potenti e degli inermi. Alto e basso: non c’è parola del lessico politico che si sottrae a questa dialettica di significati. La libertà che serve a chi sta in alto si manifesta in oppressione; per chi sta in basso, la libertà si manifesta in rivolta contro la libertà di chi sta in alto. Chi non distingue non solo fa confusione e intorbida il discorso, ma inganna anche. La norma della libertà ci è, dunque, ignota perché ognuno ha a cuore la sua libertà. A seconda della posizione sociale, quella dell’uno diverge da quella dell’altro e tutte insieme possono confliggere.

Non c’è, allora, qualcosa di inoppugnabile? È, forse, tutto relativo? Riflettiamo: se non sappiamo, in generale, che cosa è la libertà, sappiamo invece bene che cosa è il suo contrario nella carne viva degli uomini, delle donne, dei bambini e degli anziani soli, degli stranieri, dei migranti, delle minoranze, degli irregolari, degli emarginati, dei disoccupati, dei poveri. Sappiamo come questo contrario si manifesta sempre e comunque: con la violenza in una delle sue tante forme. Riflettiamo ancora: la violenza è cosa che chiunque conosce e riconosce quando la subisce su di sé e riesce a vedere negli altri. C’è forse qui un nucleo minimo di umanità comune che chiede di essere rispettato. I masochisti amano la violenza, ma solo se sono essi stessi a volerla. La violenza subita ci repelle, prima e indipendentemente di sapere che cosa la libertà è in teoria. L’esperienza dell’orrore della violenza è universale e universale è la sua condanna.

C’è una macrofisica della violenza, la guerra, e c’è una microfisica nelle piccole cose quotidiane. Il rigetto della violenza a ogni livello è un contributo alla libertà. La stessa cosa è per la giustizia? Che cosa è la giustizia? Se lo chiediamo in astratto, ci perdiamo. Non ci vuol molto a saperlo, invece, quando sperimentiamo l’ingiustizia nelle grandi come nelle piccole cose. In fondo, libertà e giustizia si tendono la mano.

Se vuoi la libertà, cerca di renderti conto di dove nasce la violenza, di dove attecchisce e di come si sviluppa. Questo potrebbe essere il motto di questa VIII edizione di Biennale Democrazia che ha scelto di fermarsi più sulle pratiche e meno sulle dottrine. Per questo non inizierà, per esempio, con “la libertà da e di”, e non terminerà con “la libertà degli Antichi e dei Moderni” e magari dei Futuri, ma con le vittime della guerra a Kiev e con il processo a Siniavskij e Daniel a Mosca. L’Accademia è, sì, buonissima cosa, ma la nostra Biennale vuole diffondere pungoli per scuotere di dosso pigrizie, conformismi e indifferenze non (solo) guardando attraverso concetti, ma anche attraverso le esperienze della libertà, dei suoi amici e dei suoi nemici.

LA RASSEGNA
Torna a Torino, dal 22 al 26 marzo, in varie sedi, Biennale Democrazia. La rassegna, dal titolo “Ai confini della libertà” ideata e presieduta da Gustavo Zagrebelsky, prevede oltre 100 incontri e più di 220 ospiti italiani e internazionali, tra i quali la giornalista e attivista Ece Temelkuran, la filosofa Rahel Jaeggi,gli storici Mikhail Minakov e Bohdan Shumylovych. Domenica finale con Ezio Mauro alle Ogr con lo spettacolo Mosca 1966.

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