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Persone trans, una sentenza semplifica l’iter per l’intervento chirurgico

Di Elena Tebano. Tratto da il Corriere della Sera

Una nuova sentenza del Tribunale di Pistoia regola una questione apparentemente tecnica che ha causato problemi imprevisti nell’accesso delle persone trans agli interventi chirurgici di affermazione del genere e che a sua volta è una conseguenza del fatto che la legge italiana sulla rettifica anagrafica (quella che un tempo si chiamava cambio di sesso) è ormai datata ed è stata dichiarata in parte incostituzionale. Il Tribunale di Pistoia, nell’accogliere la richiesta di una donna trans — assistita dall’avvocato di Rete Lenford Matteo Mammini — di adeguare il nome e il genere sui documenti (ancora al maschile) alla sua identità femminile, ha precisato che la donna ha il «diritto» di «rivolgersi direttamente alla struttura sanitaria per l’esecuzione dell’intervento».

La legge n. 164 del 1982 in origine obbligava le persone trans alla sterilizzazione forzata: solo dopo essersi sottoposte, su mandato di un giudice, a un’operazione di adeguamento dei genitali potevano chiedere il cambio di nome e genere sui documenti. Quasi dieci anni fa, nel 2015, la Corte costituzionale ha stabilito che quell’obbligo era una violazione dei loro diritti fondamentali. E che il trattamento chirurgico di adeguamento del corpo al genere non è un «prerequisito necessario per accedere al procedimento di rettificazione, bensì (…) un possibile mezzo, funzionale al conseguimento di un pieno benessere psicofisico». La Corte costituzionale, cioè, ha sancito che le persone trans possono operarsi se lo desiderano, ma che non sono obbligate a farlo per vedersi riconosciuta la loro vera identità.

A luglio c’è stato un nuovo intervento della Corte costituzionale che ha abrogato un altro pezzo della normativa. La Consulta infatti ha dichiarato incostituzionale la parte in cui prescrive che «quando risulta necessario un adeguamento dei caratteri sessuali da realizzare mediante trattamento medico-chirurgico, il tribunale lo autorizza con sentenza passata in giudicato».

È qui però che sono iniziati a sorgere i problemi. In Italia le strutture sanitarie che effettuano gli interventi chirurgici di adeguamento, infatti, procedevano di norma alle operazioni solo dopo aver ricevuto l’autorizzazione del giudice, perché la legge (all’articolo 5 del codice civile) vieta i cosiddetti «atti di disposizione del proprio corpo» se questi causano «una diminuzione permanente della integrità fisica, o quando siano altrimenti contrari alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume». Dopo la sentenza della Consulta di luglio, alcuni tribunali hanno iniziato a non dare più quell’autorizzazione, ritenendo di non doverlo fare perché la parte di normativa che la prevedeva è abrogata. Ma l’assenza di autorizzazione esplicita lasciava adito a dubbi sulla possibilità dei medici di procedere senza violare l’articolo 5 del codice civile. Per questo, altri Tribunali hanno continuato comunque a darla, una scelta che però non rifletteva l’evoluzione del diritto in materia.

È una discrepanza dovuta al fatto che, a causa dell’inazione del parlamento su questa materia, non c’è stata una riforma organica della legge sulle persone trans, ma un suo aggiornamento a colpi di sentenze della Corte costituzionale, necessariamente limitato (come è successo anche nel caso del fine vita o della legge 40 sulla procreazione assistita).

In questa incertezza arriva la soluzione della sentenza del Tribunale di Pistoia, redatta dalla giudice Giulia Gargiulo (presidente Stefano Billet), che «accerta la non necessità dell’autorizzazione giudiziale all’esecuzione del trattamento medico-chirurgico per l’adeguamento dei caratteri sessuali di parte ricorrente da maschile a femminile».

Soddisfatto l’avvocato Mammini: «La sentenza finalmente cristallizza il diritto delle persone trans a poter accedere agli interventi per l’affermazione di genere senza autorizzazione».

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