claudia sheinbaum pardo

Messico. La nuova presidenta e le sfide dello stato laico

di Simone Pepponi Fortunati. Tratto da Confronti

Dopo una vittoria schiacciante alle elezioni del 2 giugno, lo scorso 1° ottobre Claudia Sheinbaum Pardo si è finalmente insediata, come prima presidente donna nella storia del Messico. Classe 1962, di famiglia ebrea non praticante e con una carriera come fisica e ingegnera, Sheinbaum sembra incarnare le speranze di un Paese progressista, pluriconfessionale e laico. Ma cosa ne pensano i leader religiosi?

UNA LEADER LAICA

È una folla festante quella che, la mattina del 1° ottobre, accompagna la neoeletta Claudia Sheinbaum Pardo presso il Congresso dei Deputati di Città del Messico. «Presidenta, presidenta, presidenta!» è il grido che scandisce i momenti salienti: l’arrivo al Congreso de la Unión, il saluto alla bandiera, il giuramento di fronte alla costituzione e il discorso inaugurale alla presidenza. La capofila del partito di Sinistra Morena (Movimiento de Regeneración Nacional) non manca di ricordare l’importanza simbolica dell’elezione democratica di una donna al massimo incarico dello Stato: «El pueblo lo entendió muy claro: es tiempo de transformación, es tiempo de mujeres» [Il popolo lo ha capito molto chiaramente: è tempo di trasformazione, è il tempo delle donne]. Rimangono al centro, tuttavia, i pragmatici della campagna elettorale, come la lotta al narcotraffico e l’inflazione galoppante.

Un rapido accenno viene fatto al tema della tolleranza religiosa, all’interno di un discorso più ampio sulla libertà di pensiero. Va detto che Sheinbaum proviene da una famiglia di ebrei non praticanti trasferitisi in Messico dall’Europa orientale tra gli anni Trenta e Quaranta. Pur non rinnegando le proprie radici culturali, non ha mai praticato attivamente l’Ebraismo. Preferisce anzi definirsi semplicemente “laica”, mantenendo il riserbo sulle proprie preferenze religiose; la stessa comunità di ebrei messicani – circa 60.000 credenti, diffusi soprattutto al Nord – ha colto il distacco e ha espresso un voto orientato da ideali politici piuttosto che dall’appartenenza religiosa. «Penso che la questione principale nelle elezioni, anche per la comunità ebraica, non fosse la sua appartenenza ebraica, ma le sue opinioni politiche», ha dichiarato al Times of Israel Daniel Fainstein, preside del dipartimento di Studi ebraici presso l’Università ebraica di Città del Messico.

L’ex sindaca di Città del Messico ha dimostrato la stessa disincantata formalità nei confronti del culto maggioritario del Paese: il Cattolicesimo. Quando convocate dalla Curia, lo scorso febbraio, le due principali concorrenti alla presidenza hanno espresso impressioni contrapposte: l’alfiere dell’opposizione, la conservatrice Xóchitl Gálvez, ha riaffermato senza mezzi termini la sua fede in Dio; Sheinbaum si è invece limitata a dimostrare ammirazione per il pensiero umanista e sociale di papa Francesco.

Una postura diversa dal predecessore, il presidente uscente Andrés Manuel López Obrador (conosciuto anche con l’acronimo “Amlo”), che aveva fatto esplicito riferimento alla sua fede cristiana, lasciando all’interpretazione degli opinionisti la sua appartenenza a una confessione specifica. Ancora più sfumati, infine, i rapporti di Sheinbaum con le comunità evangeliche, che pure avevano acquisito crescente peso politico durante la presidenza di  Obrador. In generale, sebbene alcuni temi dell’agenda morenista, primo fra tutti la legalizzazione dell’aborto, suscitino sdegno in maniera trasversale tra membri di più confessioni religiose, l’incidenza del voto religioso è apparsa piuttosto ininfluente durante questa tornata elettorale. A tal punto che le principali agenzie di sondaggi hanno deciso di non raccogliere il dato dell’appartenenza religiosa degli elettori. “Il perché è molto semplice – spiega il prof. Elio Masferrer Kan, antropologo della Unam specializzato nel rapporto tra religione e politica – nel 2018 erano stati applicati criteri nordamericani che tenevano in considerazione il credo dei votanti; tuttavia, è stato notato che in Messico – a differenza di quanto avviene negli Stati Uniti o in Brasile – il fenomeno delle grandi masse elettorali guidate da leader religiosi sembrerebbe non esistere”.

A cosa si deve la presunta autonomia del voto dalle dinamiche religiose? La laicità in Messico è una conquista recente o è il risultato di un processo storico?

BILICO: DA JUAREZ A AMLO

Un adagio diffuso tra gli antropologi vuole che, dietro ogni proibizione, si nasconda una grande storia di infrazioni. Non c’è dubbio che in Messico l’importanza della laicità derivi dalla consapevolezza profonda dell’influenza che il potere religioso ha avuto sulla politica nel corso di tutta la storia del Paese; almeno sin da quando, nel XVI secolo, il primo vescovo della Nueva España, fray Juan De Zumárraga, mandò al rogo il cacicco di Texcoco, con l’accusa di aver sobillato la disobbedienza nei confronti delle autorità spagnole. Decaduta la colonia, la prima legislazione del Messico indipendente dovette chiarire i rapporti con la religione cattolica, la quale, sul modello della Costituzione di Cadice, veniva riconosciuta come l’unica praticata e tollerabile sul suolo patrio. D’altro canto, gli eroi dell’indipendenza dalla Spagna, da Miguel Hidalgo a José Maria Morelos, provenivano tutti dalle file di quel Cattolicesimo progressista che s’ispirava alla Rivoluzione francese, per dare voce all’insofferenza dei criollos, discendenti di europei nati in America. Le garanzie che la gerarchia cattolica mantenne per oltre cinquant’anni sarebbero però state spazzate via quando una nuova generazione di politici liberali, guidata da Benito Juárez, emanò delle riforme che scioglievano gli ordini religiosi e ne nazionalizzavano i beni, sancendo la separazione tra Chiesa e Stato, e la libertà di culto; un evento che aprì le porte alle missioni evangeliche provenienti dagli Stati Uniti.

La Costituzione del 1917 dai toni aspramente anticlericali avrebbe sancito in maniera ancora più definitiva questi principi ottocenteschi, traghettandoli nel nuovo secolo. La situazione iniziò a distendersi solo all’inizio degli anni Novanta, quando il presidente Carlos Salinas de Gortari, approvò una serie di riforme motivate dalla pragmatica necessità del Partito rivoluzionario istituzionale (Pri) di stringere legami di alleanza con Roma. 

Il salinismo ripiegava così nella difesa di un cattolicesimo integrista e conservatore. Non si trattava soltanto di concedere il voto passivo ai sacerdoti e riaprire la diplomazia con il Vaticano; furono promossi vescovi vicini al Pri, mentre si emarginavano quelli favorevoli alla teologia della liberazione. Vennero smantellate le Comunità ecclesiastiche di base (Cebs) e le iniziative promosse dal Cenami (Centro Nacional de Ayuda a las Misiones Indígenas), che offrivano, soprattutto nelle zone rurali, una liturgia vicina alle sensibilità dei popoli originari.  Questo contribuisce a spiegare, almeno in parte, il successo delle missioni pentecostali nelle campagne, come spiegato in un precedente articolo.

Nel frattempo l’opposizione, rappresentata in quel momento dal Partido de Acción Nacional (Pan), passò in mano a gruppi imprenditoriali e industriali che poco o nulla avevano a che vedere con l’originaria ispirazione cattolico-conservatrice. Fu così che ampi settori della socialdemocrazia cattolica, da Sinistra come da Destra, si compattarono in maniera sempre più decisa attorno alle forze di Sinistra emergenti, pronte a intercettare anche il voto evangelico. In effetti, se il Pri aveva rotto i rapporti con le denominazioni storiche (metodisti e presbiteriani), accusandole di essere agenti degli Stati Uniti, non riuscì poi a cooptare e controllare il mondo evangelico; la sua struttura anti-ecumenica e atomizzata mal si adattava, infatti, a una strategia diplomatica abituata a cercare figure apicali con cui negoziare accordi e alleanze.

La moderazione, l’onestà e la genuinità che Amlo seppe incarnare nelle precedenti elezioni, furono accolti con favore, dandogli l’opportunità di presentarsi, durante la presidenza, come una figura quasi messianica che avrebbe posto fine alla corruzione e al narcotraffico. A dimostrazione che in Messico l’assenza di un voto corporativo guidato da leader religiosi non proibisce l’impiego di un metro di giudizio basato su un nucleo di valori condivisi.  La tesi, sostenuta da antropologi come Kan e Carlos Garma (Universidad Autónoma Metropolitana-Iztapalapa) è confermata dai dati statistici delle precedenti elezioni.

In tutti i sondaggi realizzati, meno del 7% degli intervistati si diceva disposto a ricevere suggerimenti di voto da un ministro di culto. In compenso, tanto cattolici quanto evangelici, quando chiamati a votare come cittadini, manifestarono altre priorità: insicurezza, povertà e corruzione. I vescovi più attenti compresero la situazione, si adeguarono alle direttive dell’Episcopato messicano (Cem) e votarono per Morena. Lo stesso fecero gli evangelici. I movimenti politici di Destra che avevano portato avanti un’agenda contro l’aborto e il matrimonio gay, come il cattolico Fnf (Frente Nacional por la Familia) e il Pes (Partido de Encuentro Social) evangelico, furono emarginati dall’agone politico. Obrador ottenne il 44% del voto cattolico, il 61% del voto evangelico – uno scarto del 40% rispetto all’opposizione – e il 66% di votanti di “altre” religioni (dati: GEA-ISA).

CONFINI DELLO STATO LAICO

Sei anni dopo la vittoria di Amlo, il dato dell’appartenenza religiosa scompare dai sondaggi elettorali; rimane però la volontà degli attori religiosi di dirigere il discorso politico e guadagnare visibilità, a volte violando anche apertamente il principio di laicità espresso nella Costituzione. Pochi mesi prima dell’election day, l’ex arcivescovo di Guanajuato – una delle regioni con maggiore presenza di cattolici del Paese – avrebbe invitato apertamente i fedeli della sua parrocchia a «evitare il suffragio per quei partiti che non rispettano la vita e la famiglia sin dal concepimento». Sin dal 2022, quando si verificò l’assassinio di due gesuiti nella Sierra de la Tarahumara, la gerarchia cattolica non ha perso occasione di manifestare una profonda disillusione per Morena; fino al punto di squalificare la recente proposta di riforma del sistema giudiziario come apertamente dittatoriale, definendone l’approvazione da parte del popolo «un vero e proprio tradimento alla patria», come ha affermato il cardinale di Guadalajara Francisco Robles Ortega.

All’insofferenza dell’alta gerarchia ecclesiastica, si contrappone un più cauto tentativo di mediazione da parte delle comunità evangeliche, per le quali la visibilità è in primo luogo un discorso di riconoscimento; è quanto emerso in una conferenza svoltasi ad agosto nella città di Puebla, dove sono stati invitati i rappresentanti delle principali denominazioni. Uno dei problemi discussi in sede collegiale è stata la sottorappresentazione cronica del culto evangelico nelle statistiche Inegi, l’ente messicano responsabile della raccolta e diffusione di dati statistici e geografici. “Fino agli anni Novanta – spiega Masferrer Kan – l’Inegi impiegava, per le sue inchieste, un metodo basato sull’autoidentificazione dell’intervistato in macro-tendenze religiose. Oggi viene chiesto anche di fornirne il nome dell’associazione di appartenenza. Ciò può creare imbarazzo nel credente evangelico, che tende a non identificarsi in maniera permanente con una istituzione stabilita». E chiosa: «Non capiamo perché Inegi avrebbe dovuto introdurre un sistema così farraginoso, che la costringe a processare migliaia di nomenclature, se non per favorire i cattolici, discriminando gli altri».

Al termine della conferenza, vedo il pastore Isaias Hernández (Iglesia Cristiana Interdenominacional) raccogliere attorno a sé i suoi collaboratori per invitarli a una maggiore cooperazione: «C’è bisogno che più di duemila delle nostre comunità si uniscano per presentare una relazione all’Inegi. Dobbiamo imparare ad unirci per normalizzare la nostra situazione». «Dobbiamo iniziare a raccogliere gli atti di proprietà – ricorda Milda, moglie del pastore – siamo stanchi di essere invisibili solo perché i nostri templi non hanno cupole o campanili».

I membri della Iglesia Interdenominacional subiscono sin dal 2006, casi di intolleranza religiosa che hanno interessato soprattutto le comunità di montagna negli stati di Guerrero e Oaxaca, sfociati, lo scorso luglio, in episodi di vera e propria persecuzione, con pastori incarcerati e intere famiglie costrette a lasciare il proprio villaggio dopo essere stati spogliati dei loro beni da fanatici cattolici. Solo una settimana prima, il 13 agosto, il pastore Hernández aveva denunciato la situazione al primo congresso internazionale di diritti umani, presso la Camera dei Deputati, con un discorso solenne che ricordava il legame inscindibile tra libertà di espressione e il diritto costituzionale di professare la propria fede.

Hernández, che possiede anche la cittadinanza statunitense, fatica a comprendere perché i ministri di culto non possano essere eletti tra le cariche dello Stato, o instaurare con esse un dialogo più aperto: «Ho ricordato i miei diritti come membro di un’associazione civile. Perché non posso farlo come pastore? Durante la scorsa presidenza, abbiamo inviato lettere su lettere al presidente Obrador; non abbiamo ricevuto nessuna risposta». Quando gli chiedo se pensa che il nuovo governo offrirà degli spiragli di dialogo, la sua risposta tradisce una tensione antica, quella tra politica  e  cura delle anime, che in Messico è dura a estinguersi: «Sheinbaum viene da una famiglia ebrea. Certo, non è praticante, ma in un modo o nell’altro deve aver conosciuto la Bibbia. E in Proverbi è scritto che, quando i giusti governano, il popolo si rallegra. Confidiamo possa circondarsi di persone che la consiglino al meglio».

Hernandez, come altri, non si sbilancia sulle tematiche. Sicurezza, libertà di espressione, giustizia, viaggiano sul terreno degli obiettivi comuni, delle speranze collettive. L’indicibile è quello che non appare nelle note di congratulazioni ufficiali che tanto l’episcopato messicano quanto le denominazioni evangeliche hanno inviato a Sheinbaum; il timore di “un’agenda rosa” che porti avanti le battaglie per la parità di genere, fino alle concessioni – matrimonio civile e legalizzazione dell’aborto – davanti alle quali le velleità di dialogo dei leader religiosi si arrestano.

Da questo panorama complesso emerge di nuovo  il dilemma della laicità messicana; un concetto libero, come gli altri, di cambiare le proprie sfumature nel corso del tempo. È chiaro che il laicismo giacobino e anticlericale che calcava le tribune centocinquanta anni fa non sia più un paradigma rappresentativo della realtà del Paese. Una concezione più liberale, forse più cosciente della libertà di espressione di tutti come cittadini di una società complessa, prende forma. Ma fino a che punto può spingersi questa concezione di libertà senza minare le basi stessa della separazione tra Chiesa e Stato? Il Messico, ricorda Octavio Paz, è un Paese per eccellenza paradossale, nato dall’unione assurda tra una donna indigena e un uomo spagnolo. Ciò consentirà a Claudia Sheinbaum, presidenta neoeletta, di gestire il paradosso dei paradossi delle società contemporanee, quello della tolleranza?

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