MAGISTRATE FINALMENTE

Tratto da Il Mulino di Valentina Maisto 

Come giovane sostituta procuratrice presso la procura di Napoli non può non colpirmi l’opinione – risalente al 1956 – del presidente onorario della Corte di cassazione Eutimio Ranelletti:

«La donna è fatua, è leggera, è superficiale, emotiva, passionale, impulsiva, testardetta anzichenò, approssimativa sempre, negata quasi sempre alla logica, dominata dal “pietismo”, che non è la “pietà”; e quindi inadatta a valutare obiettivamente, serenamente, saggiamente, nella loro giusta portata, i delitti e i delinquenti» (p. 22).


La conclusione era ovvia: le donne non avevano alcuna delle doti necessarie per diventare magistrate. D’altronde, in quegli anni, era ancora molto diffusa l’idea di attribuire a ragioni anatomiche – tra cui l’isteria e il ciclo mestruale – l’impossibilità di esprimere giudizi sereni ed equilibrati. Ed è anche sulla base di questa falsa credenza che, purtroppo, la maggioranza dell’Assemblea costituente non volle prevedere una disposizione sulla possibilità di accesso delle donne alla magistratura.

Ebbene, l’opera di Eliana Di Caro Magistrate finalmente (Il Mulino, 2023), nella quale ho ritrovato la citazione di Ranelletti, ha anzitutto il pregio di indagare e ricostruire questo contesto storico e sociopolitico a partire dal dibattito all’Assemblea costituente sulla presenza delle donne in magistratura, sino all’ammissione delle donne negli uffici giudiziari, svariati anni dopo.

Invero, anche la parte più progressista del Paese che compose la Costituente del 1948 ritenne necessario evitare una giustizia bilingue, che avrebbe visto contrapporsi i diversi linguaggi del sentimento femminile e del raziocinio maschile, per usare le parole di Giuseppe Cappi, poi presidente della Corte costituzionale. All’unione trasversale di tutte le donne della Costituente – nove comuniste, nove democristiane, due socialiste e una rappresentante del Fronte dell’uomo qualunque – pose un freno il voto volutamente segreto imposto dagli uomini. D’altronde, come lucidamente rileva Di Caro:

«Di tempo, però, dovrà passarne ancora un po’. […] Il corpo giudiziario contiene in sé ancora pesanti eredità del ventennio fascista, l’assorbimento dei valori e delle innovazioni costituzionali è un processo lento […] Proprio in tema di giustizia, la transizione dalla dittatura a una democrazia compiuta è molto complessa» (p. 18).

Le parole di Ranelletti del ’56 lo confermano.

Di Caro pone in evidenza la graduale benché lenta trasformazione del clima sociopolitico che, ad esempio, con la legge 144 del 1957, inserisce le donne nelle giurie popolari della Corte d’assise e nei Tribunali per i minorenni quali cittadine scelte «tra benemerite dell’assistenza sociale, fra i cultori di biologia, di psichiatria, di antropologia criminale, di pedagogia, di psicologia». L’autrice si sofferma anche sulla Corte costituzionale che, con la sentenza 33 del 1960, accoglie la questione di costituzionalità per il mancato accesso femminile alla carriera prefettizia. In questa stessa sentenza, inoltre, la Corte sollecita il legislatore a intervenire, estendendo la possibilità di partecipazione delle donne anche ai concorsi per le funzioni giudiziarie e nell’ambito militare. Indicazione che fu poi seguita con la legge 66 del 1963, con la quale le donne avrebbero finalmente potuto accedere a tutte le cariche, le professioni e gli impieghi pubblici, compresa la magistratura.

Sia l’introiezione dei valori costituzionali sia la consapevolezza di doverli mettere in pratica permeano la cultura politica e giuridica degli anni successivi. Sul fronte legislativo meritano menzione, secondo Di Caro, la legge Basaglia, lo Statuto dei lavoratori, la legge sul divorzio, quella sull’aborto, la cancellazione del reato di adulterio e dei delitti di onore. Ma si dà giustamente spazio anche a questa medesima presa di coscienza proprio nella magistratura con la comparsa dei giovani «pretori d’assalto», la cui azione era considerata prossima alla sovversione dalle più conservatrici «toghe d’ermellino».

«Che cosa “assaltano”, esattamente, questi trentenni? Di sicuro combattono gli eccessi più retrogradi e tradizionalisti espressi dalla giurisprudenza […], puntano, per quel che riguarda i rapporti nelle fabbriche, a rafforzare la posizione e i diritti del lavoratore che era soggetto al potere del datore, seguendo la lettera dello Statuto; si attivano contro la corruzione […] e contro quei reati che danneggiano la collettività» (p. 32).

Il libro ritrae poi i profili delle prime donne entrate in magistratura: Graziana Calcagno, Emilia Capelli, Raffaella d’Antonio, Giulia De Marco, Letizia De Martino, Annunziata Izzo, Ada Lepore, Maria Gabriella Luccioli attraverso il racconto diretto delle tre giudici ancora in vita (Capelli, De Marco e Luccioli) e di quello indiretto di familiari, amici e colleghi di quante non ci sono più. Il metodo scelto è quello delle interviste, da cui emergono non solo dati informativi e storici ma anche vari spunti sui quali riflettere per la realtà giudiziaria contemporanea.

Essere donne non significa essere uguali o avere le stesse origini, propensioni, attitudini caratteriali o aspirazioni: l’essere donne non è, insomma, di per sé elemento unificante

In modo coinvolgente, Di Caro tratteggia i caratteri e i profili professionali, associativi e di background a volte simili, ma spesso diversi. Differenze che l’autrice sottolinea perché essere donne non significa essere uguali o avere le stesse origini, propensioni, attitudini caratteriali o aspirazioni: l’essere donne non è, insomma, di per sé elemento unificante. Quanto alla provenienza geografica, socioeconomica e culturale, ad esempio, alcune erano nate e cresciute in grandi città, altre in periferie industriali o agricole. Talune provenivano da famiglie medio-alto borghesi, talaltre da situazioni meno agiate; qualcuna era figlia di partigiani mentre altre di militari fascisti.

Anche le loro vite professionali si differenziano; tutte, però, hanno contribuito alla creazione di una nuova sensibilità in vari settori del diritto: c’è chi si è spesa per la causa di minori in difficoltà, per il loro recupero, per l’idea di una giustizia che non sia punitiva ma che prefiguri la chance di un’altra possibilità di vita e per l’abolizione delle cosiddette case di rieducazione o per la volontaria giurisdizione civile. Chi ha fatto i primi processi sul traffico internazionale di stupefacenti e le prime infiltrazioni nella ‘Ndrangheta in Lombardia o nella Nuova camorra organizzata in Campania. Chi si è occupata di temi di bioetica – si pensi alla notissima pronuncia Englaro – e chi ha voluto occuparsi del diritto civile puro.

Molte interviste sembrano parlare anche della situazione odierna: Emilia Capelli, giudice tutelare poi con ruoli diversi al Tribunale per i minorenni, nonché presso il Tribunale civile e penale ordinario, viene prima destinata a Milano – «dove non voleva andare nessuno… una sede completamente sguarnita» – e poi a Piacenza – «una sede disastrata, è sempre stata sovraccarica di lavoro, sempre con gente di passaggio» (p. 64 ss.). Sono problemi di grande attualità: gli organici scoperti, i carichi esigibili di lavoro, il turn over negli uffici giudiziari e non ultimo l’importanza di cambiare funzioni.

Un elemento che unisce tutti i racconti, tuttavia, è quello del pregiudizio maschile, subito almeno una volta da parte di membri dell’avvocatura, di colleghi e addirittura di capi dell’ufficio sia nella quotidianità lavorativa sia per le valutazioni nelle procedure concorsuali. Sul punto va sottolineato come dal 2015 il numero complessivo di magistrate abbia superato quello degli uomini, con dati sostanzialmente uniformi in tutta Italia. Tuttavia, i numeri precipitano vertiginosamente se si considerano i ruoli apicali: su 420 giudici con incarichi direttivi (cioè, semplificando, coloro che sono a capo degli uffici, sul fronte sia giudicante sia requirente), quasi tre su quattro (il 73%) sono uomini. Ancora: la percentuale di donne al posto di comando sale se guardiamo ai soli uffici giudicanti (31%), mentre per quanto riguarda quelli requirenti scende al 22,3%. Proprio questi dati rimarcano una criticità ancora viva: la questione di genere nell’attribuzione degli incarichi maggiormente direttivi, decisionali o di coordinamento.

Un elemento che unisce tutti i racconti del volume è quello del pregiudizio maschile, subito almeno una volta da parte di membri dell’avvocatura, di colleghi e addirittura di capi dell’ufficio

Va anche segnalato che non ci sono previsioni chiare per la maternità e sullo spazio riservato alle magistrate per la cura dei figli nei primi anni di vita. In particolare, a parità quantitativa di lavoro, sono concepibili solo differenze qualitative: proprio l’assenza di norme più concrete non tutela le donne, in particolare nei piccoli tribunali, nei quali, per la minore presenza di magistrati, il carico di lavoro e le necessità organizzative degli uffici finiscono per svuotare di senso le norme esistenti. Tutto ciò in una società che ancora non ha davvero fatto suo il concetto di bigenitorialità e suddivisione dei compiti in maniera paritaria: le donne ancora oggi sopportano gli oneri dell’educazione dei figli in modo maggiore rispetto agli uomini. Non è un caso che uno dei primi progetti di legge presentati dall’Associazione donne magistrato italiane – come ricorda Gabriella Luccioli nella sua intervista– fosse sui magistrati distrettuali e prevedesse una task force presso ogni Corte d’appello per coprire le assenze per malattia o per maternità delle donne. Ruoli che andrebbero aumentati e le loro funzioni protratte anche dopo l’assenza obbligatoria per maternità e parentale facoltativa.

Forse è questa la prossima prospettiva: verificare se la neutralità sessuale delle norme sia sempre una garanzia di eguaglianza e di parità anche e soprattutto in ragione della lontananza dell’effettivo abbandono delle logiche patriarcali nella nostra società. Ma, anche su questo, come preconizzato con grande lucidità da Maria Maddalena Rossi nel suo intervento alla Costituente, citando il patriota Domenico Giuriati: «Il mondo cammina: l’ultima parola è riservata al prossimo avvenire» (p. 17). È solo questione di tempo, aggiunge giustamente Di Caro, e io non posso che condividere.

 

Il volume Magistrate finalmente. Le prime giudici d’Italia sarà presentato oggi, giovedì 18 maggio, alle ore 15 al Salone del Libro di Torino (pad. 1, sala Rosa) alla presenza dell’autrice, Eliana Di Caro, e di Francesca Bolino e Giulia De Marco.

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