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Lo sport funziona come la Chiesa: la faccia subdola del patriarcato

Sono due roccaforti con molti tratti in comune: dal metodo ibrido di selezione dei leader, ai rituali e le cerimonie attraverso cui celebrare i propri valori e sviluppare senso di appartenenza. Violenza fisica e psicologica, violenza economica, la discriminazione come norma: lo squilibrio di potere determinato dai meccanismi precedenti, indossa la maschera della protezione per insinuarsi nell’intimità delle vittime

Il sistema sport rimane uno degli ultimi baluardi del patriarcato: una delle rare roccaforti monogenere ancora esistenti, paragonabile ormai solo al sistema Chiesa cattolica. Molti i tratti comuni. Come il pregiudizio positivo secondo cui rappresentano modelli di società perfetta, abitata da adulti meritevoli di fiducia incondizionata e delega educativa per la crescita dei giovani.

Anche l’autonomia è un aspetto condiviso e consente loro Giustizia propria. Entrambi hanno un metodo ibrido di selezione dei propri leader costituito da momenti elettorali, pochi, tra tante nomine e cooptazioni. Sono accomunati anche dall’usanza di rituali e cerimonie attraverso cui celebrare i propri valori e sviluppare senso di appartenenza: così come la Chiesa ha la liturgia sacra della dottrina religiosa, lo sport si è creato quella profana dell’olimpismo. Tutti e due influenzano enormemente la società e denunciarne i problemi non pare mai essere cosa buona o incontrare il momento giusto. Analogie che, peraltro, lo sport consolida nell’incrocio con un altro sistema patriarcale, quello militare, per via dei gruppi sportivi attraverso cui trovano riparo e tutele gli atleti di alto livello delle discipline individuali.

Parliamo del dove

Volendo andare a sintesi del lungo strascico di reazioni alle parole del ministro Valditara (espresse in occasione della presentazione alla Camera dei deputati della Fondazione dedicata a Giulia Cecchettin) servono anche accostamenti scomodi: a qualcuno potrebbero suonare addirittura scabrosi ma sono necessari per esprimere ciò che tendenzialmente resta nel silenzio. Perché se del patriarcato hanno parlato più o meno tutti per spiegare “cos’è”, relativamente al “dov’è” sembra invece regnare ancora un po’ di confusione e qualche omissione.

Tra le dimenticanze più eclatanti, nella narrazione dei luoghi abitati dal patriarcato più radicale, c’è lo sport. Sebbene percepito come un avamposto di emancipazione femminile, non è così. O meglio: lo è nella misura in cui offre alle donne la possibilità di dimostrare le loro capacità, sfidare stereotipi, realizzare i propri obiettivi. Tuttavia, questi aspetti positivi sono depotenziati dal suo modello organizzativo che, tra uomini e donne, marca un’enorme differenza di opportunità a sostegno dell’attività e che dall’attività derivano.

Perciò, contrariamente a quanto ispirerebbero i successi delle campionesse azzurre, il mondo sportivo rappresenta un territorio di grande intersezionalità di discriminazione: un ambito in cui le disparità causate dalle relazioni tra le principali categorie sociali (genere, etnia, disabilità, orientamento sessuale…) trasversali ad ogni settore della società, si sovrappongono a quelle specifiche del modello di gestione patriarcale che, sul binarismo uomo donna, fa correre altre nette dicotomie quali professionismo e dilettantismo, discipline olimpiche e non, atleti con o senza disabilità.

Tutto si tiene

Quello sportivo è un sistema organizzativo in cui il patriarcato mostra in maniera evidente il suo intreccio col capitalismo. Lo conferma la pressoché assenza delle donne dai quadri dirigenziali accompagnata da una certa refrattarietà della leadership al rinnovamento. Ne è un esempio anche la violenza economica che non concede spazi mediatici allo sport femminile, giustificandone così la disparità salariale o nei premi. Non perché non possa anch’esso generare profitto ma perché ostacolare l’autonomia finanziaria è un ottimo metodo di controllo.

Quello sportivo è anche un sistema organizzativo in cui stereotipi di genere, bodyshaming e lookism, palesano in maniera più esplicita che altrove, quanto il patriarcato crei le condizioni per il maschilismo e quanto il maschilismo legittimi e perpetui il patriarcato: dal corpo vilipeso della boxeur algerina Imane Khelif, alla fronte della tennista vincitrice a Wimbledon, Barbora Krejčíková, oggetto di bodyshaming da parte del noto giornalista di tennis Jon Wertheim, passando per le tante, troppe occasioni in cui la narrazione dello sport femminile ha guardato al corpo piuttosto che alla performance. Ma è quella in cui manifesta il suo saldo legame con il paternalismo, la faccia più subdola e pericolosa del patriarcato nello sport: quella che approfittando dello squilibrio di potere determinato dai meccanismi precedenti, indossa la maschera della preoccupazione, della protezione, della tutela del benessere per insinuarsi nell’intimità della vittima e usarle violenza.

La discriminazione come norma

«Lo sport è un ambito in cui lo sguardo esclusivamente maschile della sua organizzazione ha normalizzato le discriminazioni di genere e la violenza maschile contro donne e bambine. Stiamo assistendo da pochissimi anni a una emersione partita dagli USA (con il grande scandalo della ginnastica artistica esploso grazie al coraggio della grandissima campionessa Simone Biles). Il processo però è lungo: l’emersione ha bisogno di cultura maturata attraverso la prevenzione della violenza, il riconoscimento delle discriminazioni, l’interpretazione dei comportamenti inappropriati, l’assistenza alle vittime»; parole di Elisa Ercoli, presidente di Differenza Donna. società che gestisce il numero antiviolenza 1522 e che, con Assist, associazione nazionale atlete, ha creato il progetto SAVE (Sport Abuse and Violenze Elimination) per mettere gratuitamente a disposizione delle persone vittime di violenza (o anche di un disagio) la competenza di professioniste esperte.

«Il grande problema dello sport italiano» dice Luisa Rizzitelli, presidente di Assist, «è non voler fare un’azione strategica vera con le esperte e con le associazioni sportive, studiando le cause delle discriminazioni e operando per prevenire la violenza nello sport. È certo un piccolo passo l’obbligo di dotarsi di un safeguarding officer», obbligo sancito dalla riforma dello sport, che le associazioni debbono adempiere entro i 31 dicembre 2024. «È prezioso avere una esperta sul tema, un codice etico e un modello organizzativo per creare spazi liberi dalla violenza – continua Rizzitelli – ma tutto ha senso solo se il safeguarder è soggetto terzo e se si fa formazione con docenti non improvvisati. Con Assist abbiamo lanciato per questo il Progetto PED, cui ha aderito la Lega pallavolo serie A maschile».

Dal protocollo d’intesa tra l’Osservatorio del Coni per le politiche di safeguarding e l’Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori (Oscad) del Dipartimento della pubblica sicurezza al progetto Match-sport organizzato dalla UISP; da ChangeTheGame, prima associazione italiana contro le violenze nello sport all’Osservatorio Faircoaching Cremona (di Assist, Comune di Cremona, Università di Verona) per la consapevolezza relativamente ai comportamenti inappropriati (sia dal punto di vista relazionale che metodologico) sono molte le iniziative in campo.

Tuttavia finché la possibilità di rimuovere le cause strutturali di discriminazione resta affidata a chi è immerso nella cultura patriarcale che le determina, difficilmente il contrasto alla violenza lascerà spazio alla prevenzione.

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