28 Giu La magia della finanza verde: un inganno da 87 miliardi investiti in aziende che inquinano
Tratto da Domani, di Stefano Vergine, Giorgio Michalopoulos, Stefano Valentino.
In pochi anni ne sono stati lanciati migliaia, con nomi che strizzano l’occhio alla cura dell’ambiente e alla sostenibilità. L’inchiesta realizzata da Domani, insieme al consorzio Eic e a Voxeurop, dimostra che fondi con nomi come «Etica Impatto Clima» o «Arca Opportunità Sostenibili» – tanto per citarne un paio – possono in realtà investire nelle società più inquinanti al mondo. Sono le norme europee a consentirlo. E così, nonostante la campagna pubblicitaria incessante in nome della finanza verde, i soldi dei risparmiatori europei, inconsapevoli o no, continuano a sostenere società come Bp, Eni, Exxon Mobil, Shell, TotalEnergies: alcune delle maggiori responsabili del cambiamento climatico in termini di anidride carbonica prodotta.
Esempio. Il fondo si chiama Mediolanum Flessibile Futuro Sostenibile. La banca sul suo sito lo descrive così: «Una soluzione che coniuga la ricerca di valore con l’attenzione verso il futuro delle nuove generazioni, del pianeta e della società». Seguono quattro righe sulla gravità della crisi climatica e una citazione della vicedirettrice del programma Onu per l’ambiente: «Siamo a un bivio. Continuare sulla via attuale, che porterà a un futuro oscuro per l’umanità, o prendere la via dello sviluppo sostenibile». Per un investitore che si fida del proprio gestore, potrebbe bastare per convincersi che si tratti di un prodotto che garantisce buoni ritorni finanziari e ambientali. Chi mette i propri risparmi nei fondi comuni di solito non conosce esattamente i titoli comprati dal suo gestore, la documentazione obbligatoria da inviare al cliente non include la lista delle società. Se così fosse, si scoprirebbe che nel fondo in quel momento c’erano pacchetti azionari di Shell, TotalEnergies, Exxon Mobil, Chevron. Quattro delle 25 aziende più inquinanti al mondo nel settore oil&gas.
QUASI 100 MILIARDI DI DOLLARI
L’inchiesta di Domani, basata sull’analisi di dati del London Stock Exchange Group, fotografa i portafogli azionari di 4.342 fondi d’investimento «verdi», attivi in Ue nel quarto trimestre del 2023. Li abbiamo incrociati con la classifica delle 200 società quotate più inquinanti al mondo, cioè i 25 più grandi emettitori di Co2 di 8 diversi settori economici (petrolifero, aeronautico, carbone, automotive, moda, siderurgia, trasporti marittimi, agricoltura). Obiettivo: capire dove vanno i soldi dei risparmiatori europei che puntano sui «fondi sostenibili».
Il dato che emerge, a livello Ue, è che sotto il cappello verde ci sono 87,4 miliardi di dollari investiti nelle 200 aziende più inquinanti al mondo, e la quota maggiore (33,2 miliardi) sta finanziando proprio il comparto oil&gas, il più impattante sulla crisi climatica. Tra i beneficiari di questa tendenza, l’unica registrata in Italia è Eni: nonostante abbia in programma di aumentare la produzione di gas e petrolio nei prossimi anni, ha raccolto 1,8 miliardi di dollari dai cosiddetti fondi verdi europei.
La contraddizione si spiega con il complicato regolamento europeo relativo all’informativa sulla sostenibilità nel settore dei servizi finanziari (Sfdr), che lascia ampi margini di manovra alle aziende, e con le scelte di comunicazione delle imprese stesse. Nel 2019 il Parlamento e il Consiglio dell’Ue hanno approvato il regolamento Sfdr, entrato in vigore nel 2021 con l’obiettivo ufficiale di orientare gli investimenti verso scopi ambientalmente sostenibili. Per farlo, il testo impone a banche e società di gestione di classificare i prodotti in base all’impatto ambientale. Le etichette possibili sono due: fondi articolo 8, che devono promuovere, tra le altre cose, «caratteristiche ambientali o sociali»; fondi articolo 9, che hanno l’obbligo di perseguire «come obiettivo l’investimento sostenibile».
Vediamo come vanno le cose in pratica. A spartirsi il mercato italiano dei fondi green ci sono meno di 20 società: Intesa Sanpaolo, seguita a distanza da Anima, Generali, Arca e tutte le altre. Alla fine dell’anno scorso, i fondi sostenibili fiscalmente registrati in Italia, cioè articolo 8 e 9, avevano investito 1,7 miliardi di dollari nelle società più inquinanti al mondo. Circa il 50 per cento di questi fondi faceva capo a Intesa tramite la controllata Eurizon Capital.
La banca ritiene che queste scelte siano in linea con lo spirito dell’Sfdr e con l’Accordo di Parigi? «Gli investimenti in settori ad alte emissioni di CO2 – ci ha risposto un portavoce di Intesa – non sono in conflitto né con gli obiettivi dell’Sfdr, che riguardano la trasparenza degli investimenti in tema di sostenibilità, né con gli Accordi di Parigi, che promuovono una transizione verso un’economia a basse emissioni di carbonio. A fine 2023 Eurizon ha interagito attivamente con 46 società appartenenti ai settori maggiormente inquinanti e stima che il valore assoluto delle emissioni di carbonio degli attivi in perimetro all’iniziativa abbia registrato un calo di oltre il 36 per cento rispetto al 2022».
Il regolamento europeo è lasco nel definire i confini della parola «sostenibile». Come ha scritto in un rapporto del 2023 Esma, l’autorità che vigila sui mercati finanziari Ue, questo ha portato ad un uso improprio dell’Sfdr come strumento di marketing. Il risultato è che anche i fondi articolo 9, quelli che dovrebbero avere come obiettivo la sostenibilità, puntano sulle società che emettono più CO2 al mondo.
LA MODA INQUINANTE
I dati dicono che i fondi domiciliati in Italia avevano all’attivo 79,8 milioni di dollari investiti in queste aziende. Arca Azioni Europa Climate Impact, ad esempio, ha puntato 5,8 milioni su Zara, 7,5 milioni su Zalando, 3,1 milioni su H&M: le regine dal fast fashion, settore che produce circa il 10 per cento delle emissioni globali. Le società su cui investiamo «appartengono tutte all’indice Msci Europe Climate Paris Aligned, costruito rispettando i criteri espressi dal regolamento Ue», ci ha risposto Arca Sgr, controllata dal gruppo Bper Banca, precisando che il fondo in questione nel complesso ha persino «una impronta di carbonio» migliore rispetto al benchmark rappresentato dall’indice di Msci.
Se i fondi sostenibili articolo 9 tutto sommato limitano gli investimenti in aziende inquinanti, nei fondi articolo 8 si trova un po’ di tutto. Tra i tanti c’è anche il Mediolanum Flessibile Futuro Sostenibile, il fondo citato all’inizio, che investe un totale di 11,9 milioni di dollari in Shell, Total, Exxon, Chevron e Rio Tinto. Abbiamo chiesto a Mediolanum se il nome scelto rispecchia il portafoglio azionario del fondo e se, più in generale, le scelte d’investimento sono in linea con lo spirito dell’Sfdr e con l’Accordo di Parigi. La banca ci ha risposto spiegando che le società sui cui ha investito «sono compatibili con le linee guida di investimento sul fondo» per due ragioni principali: da un lato il «settore energetico e quello minerario sono presenti in parametri di riferimento Esg quali, a titolo esemplificativo, il Msci World Esg Leaders Index», dall’altro «le società in questione hanno intrapreso un percorso di progressiva decarbonizzazione e di aumento della esposizione alle fonti di energia rinnovabile».
Se si vanno a leggere con la lente d’ingrandimento i documenti societari si capisce che, per classificare un fondo come articolo 8, le società del settore non devono fare molto: basta autocertificare che i loro investimenti promuovono i criteri Esg (Environmental, Social, Governance), cioè che nel complesso riducono gli impatti ambientali e sociali negativi delle loro attività, e che promuovono politiche meritocratiche ed egualitarie all’interno del gruppo. Questo prevede il regolamento, senza specificare se l’azienda deve aver fatto progressi in tutti e tre gli ambiti o se è sufficiente, ad esempio, essere molto bravi con i propri dipendenti e magari meno con l’ambiente.
Il 14 maggio del 2024 Esma ha pubblicato le sue «Linee guida sui nomi dei fondi che usano termini relativi alla sostenibilità e agli Esg». Dovrebbero stringere almeno un po’ le maglie sul greenwashing. La novità è che anche i fondi articolo 8 dovranno sottostare a regole più stringenti. Non si potrà investire in società che derivano oltre l’1 per cento del fatturato dal carbone, oppure oltre il 10 per cento del fatturato dal petrolio, oppure oltre il 50 per cento dal gas. La novità causerà lo spostamento di parecchio denaro. Secondo la società di consulenza Morningstar, ci sono circa 1600 fondi che dovranno decidere se smettere di presentarsi come green, oppure disinvestire più o meno 40 miliardi di dollari oggi scommessi sul settore dei combustibili fossili. Se l’Italia deciderà di adeguarsi ai criteri dell’Esma (in caso contrario dovrà spiegarne i motivi), quanto tempo ci vorrà prima che il regolamento entri in vigore? La Consob ci ha risposto che «non è possibile, ad oggi, indicare una data certa. L’iter di adozione richiede vari passaggi. Innanzi tutto la traduzione delle linee-guida dell’Esma nelle lingue degli Stati membri. Seguirà infine l’applicazione: da subito per i fondi di nuova costituzione e con un periodo transitorio di sei mesi per i fondi preesistenti. In tutto l’iter potrebbe richiedere indicativamente fra i cinque e i dodici mesi».
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