20 Ott Il caso Apostolico: essere e apparire imparziali nell’epoca dell’emergenza migratoria
E’ ancora possibile, nell’epoca della emergenza migratoria, ragionare dell’imparzialità dei magistrati andando oltre le aggressioni, le mistificazioni e l’elogio del silenzio e dell’ipocrisia?
Articolo del direttore di Questione Giustizia, Nello Rossi
Senza attesa, senza speranza, senza pretesa di imparzialità non c’è possibilità di giustizia. I cittadini, infatti, accettano di farsi giudicare dai magistrati non perché questi siano più intelligenti, più capaci, più colti, più saggi di loro (giacché spesso non lo sono affatto) bensì per l’aspettativa di trovarsi di fronte a giudici imparziali, capaci di chinarsi sul loro caso senza pregiudizi o vincendo i loro naturali pregiudizi per adottare decisioni conformi al diritto. E però il giudice non è l’essere inanimato vagheggiato da Montesquieu, vuoto di idee e di convinzioni, ma una persona immersa nella vita della “città”. Se anche non avesse idee generali sulla politica e sulla società egli avrebbe comunque esperienze – un divorzio difficile, l’essere stato coinvolto in un incidente stradale o vittima di un furto – e potrebbe essere chiamato a giudicare proprio di incidenti stradali, di furti o di separazioni coniugali. L’imparzialità del giudicante non può essere dunque concepita come un dato a priori, un tratto della personalità del magistrato esistente una volta per tutte, ma un “risultato” da raggiungere, di volta in volta nello svolgimento dell’attività giudiziaria. In altri termini l’imparzialità è la più alta prestazione professionale del magistrato, frutto di una consapevole “tensione” verso l’obiettività all’atto del decidere realizzata da chi è in grado di fare la tara alle proprie convinzioni per garantire la corretta applicazione del diritto nel caso concreto. Per altro verso la giusta esigenza di garantire anche l’“apparenza” dell’imparzialità non può esaurirsi nell’elogio del silenzio e della ipocrisia ma riguarda soprattutto il “come” un magistrato si comporta nel processo o prende la parola in pubblico e partecipa alla vita collettiva. In particolare quando è un magistrato a prendere la parola o a scrivere per il grande pubblico, il cittadino ha il diritto di attendersi che il suo potenziale accusatore o giudice parli e argomenti in modo chiaro e comprensibile; che partecipi al discorso pubblico come un attore razionale, capace di ascolto degli argomenti altrui e di repliche meditate; che non prorompa nell’urlo fazioso, nell’invettiva, nella semplificazione magari brillante ma brutale e fuorviante. E’ il rispetto di questi criteri di misura, di sobrietà, equilibrio, ragionevolezza e disponibilità al dialogo ed al confronto nella vita pubblica che vale a preservare, meglio di ogni silenzio, astensione o mascheramento, la credibilità e l’immagine di imparzialità dei magistrati.
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Sommario: 1. Il nodo immigrazione – 2. Oltre l’indignazione – 3. Il valore preminente dell’imparzialità – 4. Un episodio di un lontano passato: il Senatore Pera e i magistrati di Md – 5. Essere imparziali – 6. Apparire imparziali – Post-scriptum
1. Il nodo immigrazione
Nei tragici sconvolgimenti del presente, segnati da una inquietante moltiplicazione dei fronti di guerra, l’immigrazione incontrollata è probabilmente per l’intera Europa il problema politico di più difficile soluzione. E, se possibile, lo è in misura ancora maggiore per il nostro Paese, sia per la sua esposta posizione di frontiera marittima del continente europeo sia per l’evidente impossibilità del governo di destra di tener fede alle mirabolanti e ingannevoli promesse di rapida soluzione del problema fatte dai suoi principali esponenti nel corso della campagna elettorale.
L’esistenza di una ardua e spinosissima “questione immigrazione” è la chiave per comprendere e valutare la furibonda reazione del governo, della sua maggioranza e dei media della destra – oggi in posizione di assoluta preminenza- a pronunce dei giudici che, in applicazione delle norme della UE e della Costituzione, tutelano diritti fondamentali dei migranti, entrando in rotta di collisione con una politica governativa che si sta rivelando insieme autoritaria e inefficace.
La “questione immigrazione” è così divenuta il campo di una battaglia senza quartiere nella quale la destra addita alcuni giudici come i nemici interni, sabotatori dell’azione governativa, muovendo loro l’accusa più squalificante che si può muovere ad un giudice, quella di parzialità.
A questa insidiosissima offensiva mediatica ed istituzionale occorrerà che i giudici ed i giuristi liberali – superando la pur sacrosanta indignazione per i metodi e i contenuti della aggressiva polemica in atto – rispondano con il massimo di freddezza e di razionalità, ragionando di imparzialità dei magistrati con argomenti che sappiano parlare tanto alla cultura giuridica quanto alla più vasta opinione pubblica.
Con la costante consapevolezza che moltissimi cittadini italiani guardano con ansia crescente al fenomeno dell’immigrazione – non solo per le sue attuali dimensioni ma per le sue prospettive future e per l’assenza di una credibile e chiara politica europea e italiana – e possono perciò subire la suggestione di campagne dirette a mascherare i fallimenti delle politiche governative attraverso l’individuazione di responsabili interni delle loro gravi défaillances.
Nell’affrontare il drammatico nodo dell’immigrazione bisogna avere sempre presente che in discussione non è solo il rispetto di fondamentali diritti umani dei migranti ma anche il futuro e la sopravvivenza del nostro Stato democratico di diritto.
2. Oltre l’indignazione
Per avere emesso una pronuncia non condivisa, o, per dirla tutta, invisa al governo ed alla sua maggioranza, il giudice Iolanda Apostolico si è trovata al centro di una tempesta politica e mediatica ed è stata oggetto di uno screening mirato su opinioni e atti, suoi e perfino del marito, avente lo scopo di additarla all’opinione pubblica come un giudice prevenuto e parziale, al fine di incrinare in radice tanto la sua immagine professionale quanto la validità della decisione da lei adottata.
Nel parossistico crescendo di accuse mosse alla giudice si è giunti addirittura a chiedere le sue “dimissioni” senza darsi troppo pena di chiarire per quale ragione giuridica.
Per aver scritto una sentenza che molti e qualificati giuristi hanno ritenuto giusta e corretta?
O per avere compostamente partecipato, nell’agosto 2018, ad una manifestazione di carattere umanitario, promossa da associazioni cattoliche e della società civile in favore dello sbarco di 137 persone stremate che avevano attraversato il mare, trascorso dieci giorni su una nave della Guardia costiera ed erano bloccate da cinque giorni nel porto di Catania? Magari perfino scandendo, insieme ad altri, che lei è antifascista?
E’ dunque comprensibile e pienamente giustificata la ripulsa tanto per i metodi e i toni con i quali esponenti politici della maggioranza di governo e molti (non tutti i) commentatori hanno parlato della giudice quanto per la richiesta di ispezioni e punizioni che suona come offesa al buon senso e al diritto ed è avanzata al fine di intimidire tutti gli altri magistrati, dimostrando loro che domani potranno trovarsi anche loro nella bufera se adotteranno provvedimenti sgraditi al governo.
Per i magistrati sarebbe però un errore limitarsi a reagire in maniera indignata alle falsità, alle forzature, alle letture artificiose che – a partire dalla Presidente del Consiglio, e giù giù fino a Bruno Vespa – non hanno esitato a raccontare agli italiani che le improbabili dichiarazioni dei migranti tunisini sulla loro situazioni in patria sono state le “ragioni giuridiche” dei provvedimenti di diniego di convalida del loro trattenimento.
La vicenda ha infatti riproposto – ancora una volta – il tema della imparzialità dei magistrati e della sua conciliabilità con la loro partecipazione alla vita pubblica.
Un tema che non cessa di essere serio solo perché dai più è sollevato in maniera interessata e faziosa e affrontato con triti luoghi comuni, senza alcuna volontà di esploralo seriamente.
Proviamo allora a cambiare registro, ragionando apertamente di una “questione di giustizia” che richiede di essere affrontata con amore di verità e che può essere trattata e compresa non facendosi opprimere dai clamori dell’ennesimo urto tra politica e magistratura e provando a dare risposte ad alcune domande di fondo.
E’ possibile, è concepibile un magistrato che sia civilmente impegnato e al tempo stesso imparziale?
Ed il modello di giudice cittadino, partecipe della vita della città è desiderabile o da ripudiare, relegandolo in soffitta, in una fase nella quale il rapporto tra politica e giurisdizione è divenuto sin troppo teso e ravvicinato?
Le due dimensioni – impegno civile del magistrato e sua imparzialità – sono inevitabilmente contraddittorie, destinate a cozzare, a confliggere tra di loro, oppure possono convivere, coesistere, trovare forme di possibile armonizzazione?
E se si, a quali condizioni, sulla base di quali regole, di quali comportamenti dei magistrati, di quali prassi?
3. Il valore preminente dell’imparzialità
Va subito chiarito che nella coppia concettuale – impegno civile e imparzialità – il valore preminente da garantire ad ogni costo è l’imparzialità del magistrato.
Imparzialità di chi giudica. Ma anche imparzialità del magistrato del pubblico ministero.
Tutto il resto viene dopo, è corollario. Importante quanto si vuole, ma pur sempre un corollario.
Senza attesa, senza speranza, senza una vera e propria pretesa di imparzialità non c’è giurisdizione possibile, non c’è possibilità di giustizia.
Non ci stancherà mai di ripetere che i cittadini accettano di farsi giudicare dai magistrati non perché questi siano più intelligenti, più capaci, più colti, più saggi di loro, giacché spesso non lo sono affatto.
I cittadini accettano di farsi giudicare dai magistrati per l’aspettativa, sottesa all’intero ordinamento giuridico, di trovarsi di fronte a giudici imparziali, in grado di chinarsi sul loro caso – senza pregiudizi o vincendo i loro naturali pregiudizi – mostrandosi capaci di ascolto e di valutazione delle diverse ragioni in campo e di adottare una decisione conforme al diritto.
Questo significa che, nell’esercizio della giurisdizione, i magistrati non sono, non possono essere, in nessun caso e a nessun costo, parziali né avere “avversari” sul terreno sociale e politico.
La giurisdizione ha oggi molti “avversari”, nel senso che l’attività del giudicare suscita, come la cronaca ampiamente dimostra, inimicizie, aggressioni, ritorsioni.
Ma non vale il contrario, pena la perdita di ogni legittimazione a giudicare ed accusare.
4. Un episodio di un lontano passato: il senatore Pera e i magistrati di Md
Se mi è consentito rievocare un episodio di un passato ormai lontano, ricorderò che il senatore Marcello Pera, in un momento nel quale era da tutti ritenuto il Ministro della Giustizia in pectore del governo Berlusconi (diverrà poi Presidente del Senato e al Ministero della Giustizia andrà il leghista Roberto Castelli) intervenne al Congresso di MD che si teneva a Venezia.
Nel suo discorso il Senatore affermò che, assumendo determinate posizioni sul terreno sociale ed istituzionale, i magistrati di Md divenivano o potevano essere percepiti come avversari della sua parte politica, il partito di Forza Italia.
Una frase raggelante perché conteneva il germe della più radicale delegittimazione.
In replica a tale inquietante affermazione sentii allora il bisogno di scrivere sulle colonne di Questione Giustizia un breve saggio intitolato “Lettera aperta ad impossibili avversari”[1].
Traendo esempi dalla concreta esperienza giudiziaria e segnatamente dall’analisi dei comportamenti tenuti da magistrati aderenti a Magistratura democratica sui terreni della giustizia civile e del contrasto al terrorismo, alla grande criminalità organizzata ed alla corruzione politico-amministrativa, mi proponevo di dimostrare che quei magistrati non avevano mai considerato alla stregua di “avversari” nessuna delle persone incontrate nello svolgimento delle loro funzioni giudiziarie.
In quell’occasione sostenni anche – e ripeto ora – che un magistrato imparziale non è un essere vuoto di convinzioni e di ideali o privo di passione civile ma una persona capace di tendersi consapevolmente verso l’imparzialità all’atto del decidere.
Di questa affermazione, della quale resto profondamente convinto, occorre ragionare più da vicino.
5. Essere imparziali
Il nucleo centrale del ragionamento è che l’imparzialità non è un dato a priori, un tratto della personalità del magistrato esistente una volta per tutte, una permanente caratteristica psicologica di chi è chiamato a giudicare, ma un “risultato” da raggiungere, di volta in volta e spesso molto faticosamente, nello svolgimento dell’attività giudiziaria.
Più precisamente è l’effetto ultimo di una consapevole “tensione” verso l’imparzialità, realizzata da chi – ponendosi nel giudizio di fronte ad una vicenda della vita reale ed alla norme destinate a regolarla – è capace di fare la tara alle proprie convinzioni ed alla propria “precomprensione” della realtà effettuale e del significato dei dati normativi e interpreta i fatti e le norme impegnandosi a far sì che le sue convinzioni non prevalgano sulla razionale applicazione del diritto nel caso concreto.
Immerso nella vita sociale, culturale e politica della collettività di cui è parte, il giudice non è – e anche se lo volesse non può essere – l’essere inanimato vagheggiato da Montesquieu vuoto di idee e di opinioni che, in forza di tale condizione, dovrebbe essere in grado di aderire perfettamente alla legge da applicare e di leggere spassionatamente i fatti su cui è chiamato a giudicare.
Eppure, nonostante l’evidente irrealtà della metafora, l’immagine di Montesquieu corre sotterranea nelle ricorrenti polemiche sulla imparzialità dei giudici nelle quali il modello estremo dell’essere inanimato ricompare ora come aspirazione, ora come intimazione, ora come parametro virtuoso.
In quest’ottica la partecipazione alle vicende della città è inevitabile contaminazione dalla quale astenersi per mantenere l’imparzialità, considerata alla stregua di una condizione primigenia da preservare intatta.
Ora, da un lato questa figura di giudice atarassico, vuoto di convinzioni e per questa via imparziale a priori, non esiste nella realtà effettuale.
Dall’altro lato, se esistesse, sarebbe un pessimo giudice.
Anche se ci trovassimo di fronte ad un magistrato del tutto privo di convinzioni politiche e di idee sulla società questi avrebbe pur sempre esperienze di vita e potrebbe essere chiamato a giudicare proprio negli ambiti nei quali ha maturato tali esperienze.
L’aver subito un grave incidente stradale, l’aver affrontato un divorzio fortemente conflittuale, l’essere stato vittima di un furto non potrebbero certamente precludergli di giudicare in materia di incidenti stradali, di separazioni coniugali o di furti; ma è certo che per essere imparziale nel giudizio egli dovrebbe sorvegliarsi, ridurre consapevolmente il peso della sua esperienza personale, fare la tara ai suoi pre-giudizi per lasciare il posto ad una valutazione schiettamente razionale dei fatti da giudicare e dei temi di diritto da affrontare.
La valutazione imparziale dei fatti e delle norme si presenta così come una prestazione professionale- la più alta che il magistrato è chiamato a rendere – che può essere realizzata solo se egli sa divenire nel corso del procedimento e nel momento del giudizio indipendente anche da se stesso[2].
Questa impegnativa attuazione dell’imparzialità deve risultare “visibile” già durante la conduzione del procedimento (beninteso nei casi in cui il provvedimento del giudice sia emesso all’esito di un procedimento) nella correttezza del rapporto con le parti e nella capacità di ascolto delle loro ragioni; ma essa trova nella motivazione dei provvedimenti un momento di fondamentale di verifica e di controllo.
La motivazione infatti descrive l’itinerario della ragione che il giudice ha seguito nel leggere i fatti, nell’interpretare le norme e nel formare il suo convincimento così che il controllo della parte motiva di un provvedimento da parte di un giudice successivo, e segnatamente da parte del giudice di legittimità, può rilevare insieme agli errori di logica e di diritto anche le incongruenze, le forzature, gli errori interpretativi scaturenti da un atteggiamento pregiudiziale e parziale del giudicante.
Ed è significativo che la nostra Costituzione, all’art. 111, preveda sempre il ricorso per cassazione per violazione di legge contro tutte le sentenze e i provvedimenti sulla libertà personale, garantendo la presenza e il controllo di un organo collegiale della massima autorevolezza tutte le volte che sia in gioco il valore supremo della libertà personale.
Come è noto, in altri ordinamenti – nei quali i comuni cittadini che compongono la giuria sono chiamati ad esprimere un verdetto immotivato – è talora affidato alle parti del processo un penetrante potere di selezione preventiva dei componenti del collegio giudicante, al fine di escludere i portatori di pregiudizi sociali o cognitivi suscettibili di condizionare, anche inconsapevolmente, il giudizio.
Nel nostro Paese, invece, il ruolo giocato da magistrati professionali e l’obbligo di motivazione fa sì che le cause di incompatibilità, astensione e ricusazione mirino solo ad evitare il pregiudizio derivante dall’emissione di un precedente provvedimento nel processo o a garantire l’estraneità agli interessi delle parti in causa e non prendano in considerazione le opinioni personali e le scelte sui valori.
Un segno ulteriore, questo, che la tensione verso l’imparzialità nel momento della decisione è concepita come una componente essenziale della prestazione professionale del magistrato.
Per altro verso un giudice, disinteressato alle materie su cui deve giudicare e privo di idee generali e di preesistenti opinioni su di esse, sarebbe anche un giudice pessimo e indesiderabile, che in pochi vorrebbero trovarsi di fronte.
Quale parte di una causa potrebbe essere tranquilla e soddisfatta di un giudice che non ha riflettuto e studiato, formandosi delle convinzioni, le problematiche sociali coinvolte nei temi da giudicare?
E chi, in un giudizio su questioni economiche, vorrebbe essere giudicato da un giudice privo di cultura economica, disinformato e senza interesse per questa tematica?
E come potrebbe un giudice che non avesse maturato convincimenti critici precedenti all’applicazione di una norma dubitare della sua legittimità costituzionale?
Essere imparziali è dunque una prestazione professionale del magistrato, la più alta, come si è detto, che egli è chiamato a rendere, grazie ad una costante sorveglianza su se stesso che gli consenta, nell’atto del decidere, una lettura dei fatti e una interpretazione della legge non condizionate e distorte dai suoi personali convincimenti.
6. Apparire imparziali
Come si è già accennato l’imparzialità può (e deve) essere resa visibile già nel processo tanto attraverso la condotta tenuta dai magistrati nello svolgimento della procedura quanto nella rappresentazione delle ragioni giuridiche poste a base della decisione che è offerta nella motivazione.
Sono dati, questi, troppo superficialmente svalutati da quanti sostengono l’importanza dell’apparire imparziali.
Sottovalutando l’ancoraggio a elementi processuali controllabili quanti ricordano l’importanza della “apparenza” di imparzialità finiscono con il rifugiarsi solo in una sorta di elogio del silenzio e dell’ipocrisia.
Pur riconoscendo che il magistrato è un “essere animato” da idee, opinioni, convinzioni egli è invitato in vario modo a occultarle e a mascherarle, tenendole segrete e non manifestandole pubblicamente.
Come a dire “Occhio non vede, cuore non duole”, la ricetta della magistratura burocratica degli anni cinquanta e sessanta, silenziosissima perché integralmente allineata alle classi dominanti e pronta all’ossequio nei confronti del potere.
E’ importante notare che la gamma delle “manifestazioni” ritenute “inopportune” è vastissima e varia moltissimo a seconda della fantasia e delle suscettibilità degli “opinionisti”.
Secondo taluni sono compromettenti gli scritti sui social; secondo altri la partecipazione a manifestazioni, anche non strettamente politiche; secondo altri ancora una intervista, un articolo di giornale o perfino uno scritto scientifico su una rivista possono essere indizio di pregiudizio, e così via, in una sequenza infinita di dissertazioni su esempi di varia natura.
In realtà non è sfogliando questo arbitrario e fantasioso catalogo di comportamenti che si può trovare una risposta soddisfacente alla legittima esigenza che il magistrato, oltre ad essere, “appaia” imparziale.
La risposta infatti – salvo ipotesi estreme – non ha a che fare con le occasioni esterne di presenza e di parola del magistrato ma riguarda soprattutto il “come” un magistrato può prendere la parola o partecipare alla vita pubblica preservando la sua credibilità e la sua immagine di imparzialità.
Come ho già avuto modo di scrivere «quando è un magistrato a prendere la parola o a scrivere per il grande pubblico, il cittadino ha il diritto di attendersi che il suo potenziale accusatore o giudice parli e argomenti in modo chiaro e comprensibile; che partecipi al discorso pubblico come un attore razionale, capace di ascolto degli argomenti altrui e di repliche meditate; che non prorompa nell’urlo fazioso, nell’invettiva, nella semplificazione magari brillante ma brutale e fuorviante»[3].
Valido per la parola del magistrato, questo approccio non cessa di esserlo per altre forme di manifestazione del pensiero tra cui rientra la partecipazione ad una manifestazione soprattutto quando non si tratti di una manifestazione di una parte politica ma della società civile.
Ciò che conta, in sostanza, è che la partecipazione alla vita civile non si ponga in contrasto con il ruolo sociale del magistrato e con le aspettative – di ragionevolezza, di apertura al dialogo, di equilibrio espressivo e di misura – che comprensibilmente su tale ruolo si appuntano nella società.
Di queste risposte saranno insoddisfatti, lo sappiamo, i cantori dell’ipocrisia.
Per essi è un articolo di fede credere alla ’“immacolata concezione” alla politica di magistrati silenziosissimi, improvvisamente arruolati, soprattutto a destra, nelle file della politica e pronti ad accusare di politicizzazione i loro colleghi solo perché partecipano ad associazioni di magistrati, scrivono articoli o disinteressatamente (senza averne vantaggi e senza assumere impegni verso chicchessia) partecipano ad una manifestazione a sostegno di poveri cristi cui è impedito di scendere a terra.
Questi laudatores del silenzio e dell’astensione sono anche pronti a chiudere gli occhi di fronte al roteare delle sliding doors verso la politica attraversate con invidiabile disinvoltura da magistrati, che il giorno dopo dell’ingresso nell’agone politico, sono i più zelanti nelle accuse di politicizzazione verso i loro ex colleghi.
Così come capita di ascoltare lezioni di etica professionale da parte di magistrati divenuti parlamentari che per anni hanno posto in essere sistematiche violazioni del codice etico dei magistrati (ad es. attraverso comparsate nei processi simulati in tv).
Di queste miserie e di questi paradossi ne abbiamo visti molti negli ultimi decenni e a volte è forte la voglia di dire che la misura è colma.
Ma su questo delicatissimo terreno i nostri reali interlocutori sono i cittadini ai quali occorre instancabilmente continuare a dire la verità, senza infingimenti e senza orpelli fidando nella loro buona fede, nel loro senso della realtà, nella loro ragionevolezza.
Non dimenticando mai di ricordare che non sono le idee pubblicamente e disinteressatamente espresse il reale pericolo per l’imparzialità del magistrato ma i suoi legami di interesse sotterranei, invisibili, opachi.
Post scriptum
Certo, se si mettono accuratamente in fila – come ha fatto Luigi Ferrarella nel suo articolo sul Corriere della Sera dell’8 ottobre – tutti i casi nei quali, in quest’ultimo anno, i magistrati sono stati oggetto di iniziative disciplinari o di aggressive campagne mediatiche per decisioni sgradite al potere o per interventi su casi controversi emerge un quadro impressionante. La destra che governa mostra di voler essere obbedita dai giudici e mal sopporta quella indipendenza di status e di giudizio che è la prima garanzia della imparzialità dei giudici nei processi che riguardano i comuni cittadini. Ai quali vanno ricordate le mostruose violazioni dei diritti che si verificano in Russia, in Turchia, in Iran e in tutti i Paesi nei quali la giustizia è solo il braccio armato e l’altra faccia del potere. Resta però che tra tutti i temi di giustizia al centro di polemiche e contrasti quello dell’immigrazione è il più spinoso e rappresenta il crogiuolo incandescente nel quale si versano e si confondono regole di umanità e paure sociali, principi irrinunciabili di civiltà e pulsioni elementari e nel quale si deciderà tanto del rispetto di diritti umani fondamentali delle persone quanto della sorte dello Stato democratico di diritto.
[1] N. Rossi, Lettera aperta ad impossibili avversari, in Questione Giustizia, 2001, pp. 333-342.
[2] Sull’indipendenza del giudice “anche da se stesso” ha ragionato in più scritti Enrico Scoditti, da ultimo nel saggio L’ora della responsabilità per la magistratura, in Questione Giustizia on line del 17.6.2022.
[3] N. Rossi, Dall’arte di tacere alla scelta di comunicare, in Questione Giustizia trimestrale n. 4 del 2018, p. 250.
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