28 Nov Il senso di Dal Mastro per la giustizia
Di Annalisa Cuzzocrea. Tratto da La Stampa 16/11/2024
Che idea della giustizia ha il sottosegretario Andrea Delmastro? Dove ha imparato quel che sa delle responsabilità di un funzionario pubblico? In una sezione del Fronte della gioventù, a un concerto nazirock o a una festa di CasaPound? O forse alle cene di Capodanno in cui qualcuno spara per caso, come nella vicenda che ha coinvolto il deputato Emanuele Pozzolo a inizio anno a Rosazza, in provincia di Biella? A giudicare dall’ultimo video che lo immortala mentre celebra la nuova automobile blindata fornita in dotazione alla polizia penitenziaria, il concetto di Stato del sottosegretario sembra piuttosto derivare dai film americani dove il «poliziotto cattivo» si occupa del «delinquente» appena arrestato con metodi tutt’altro che ortodossi.
Delmastro è felice di «far sapere ai cittadini come noi sappiamo trattare chi sta dietro quel vetro oscurato, come incalziamo chi sta dietro quel vetro oscurato». La voce si alza, si fa rabbiosa: «Come noi non lasciamo respirare chi sta dietro quel vetro oscurato». Questo trattamento, sostiene, «è un’intima gioia per il sottoscritto». Passano poche ore, l’opposizione protesta, Delmastro aggiusta il tiro: «Ci mancherebbe altro che diamo respiro alla mafia e alla criminalità organizzata». E quindi certo, non si riferiva ad alcun tipo di tortura fisica, cosa mai andiamo a pensare.
Basta però riguardare quel video, per avere pochi dubbi su cosa intendesse davvero: nel mondo di Delmastro ci sono i buoni e i cattivi come nei film western (con qualche sfumatura in meno). Ci sono i rappresentanti delle forze dell’ordine che tutto possono e gli arrestati che sono tutti – senza distinzione, senza processi, senza dubbi – meritevoli di trattamenti coercitivi e degradanti.
Potremmo – con un po’ di immaginazione – credere nelle metafore e nella buona fede. Potremmo dimenticare che Delmastro è rinviato a giudizio a Roma per aver trasmesso informazioni riservate del ministero della Giustizia per farle usare in aula contro gli avversari politici.
Potremmo credere in un suo più alto senso delle istituzioni e sorvolare anche sul fatto che sia andato a Taranto in un carcere che dovrebbe ospitare al massimo 500 persone, mentre ce n’erano 960, a parlare con la polizia penitenziaria vantandosi di non aver rivolto la parola a nessun altro. Di «non essersi inginocchiato alla Mecca dei detenuti», parole sue riportate da chi c’era e da numerosi organi di informazione. Potremmo pensare che si tratti di piccole leggerezze, di innocenti parole fuori posto, se in questo Paese Taranto fosse un’eccezione e le carceri posti civili in cui non avvengono pestaggi e torture. Solo che, purtroppo, non è così.
A partire dall’inizio dell’anno si sono suicidate in carcere in Italia 80 persone. Alcune di loro avevano pene brevi da scontare, brevi ma nonostante questo insopportabili. Alcuni erano giovanissimi, poco più che maggiorenni, e non ce l’hanno fatta. Nel frattempo, sono solo gli ultimi casi, a Cuneo ci sono agenti carcerari indagati per tortura. Le intercettazioni che Delmastro non usa in Parlamento riportano le loro frasi: «Ti giuro che stasera faccio un guaio, vado giù e lo scasso». Ci sono le immagini dei pestaggi nel carcere minorile Beccaria di Milano. Quelle del 2020 a Santa Maria Capua Vetere. Ci sono stati Federico Aldrovandi e Stefano Cucchi, ragazzi torturati e uccisi senza colpe (anche ne avessero avute, il giudizio su quegli omicidi non potrebbe cambiare). C’è stata la scuola Diaz, c’è stata la caserma Bolzaneto. Ci sono prigioni che sono l’inferno sulla terra e nessuno, nel governo, ha fatto nulla per migliorare la situazione (neanche per quelle guardie carcerarie dalla cui parte Delmastro dice di stare). Ci sono più reati e pene più lunghe, anche per i minori, a meno che non si tratti di abuso d’ufficio (lì ci ha pensato la politica). C’è la vecchia e mai superata proposta di Fratelli d’Italia di cancellare il reato di tortura. Per tutte queste ragioni, e per quel video, quella voce, quel tono, si stenta a credere alla metafora. È un modo di pensare, un modo di fare politica. La fine del diritto, nel Paese di Cesare Beccaria.
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