15 Mar I problemi del giornalismo investigativo
Tratto da il Mulino, articolo di Paolo Pombeni
La recente indagine della procura di Perugia diventa occasione per interrogare il sistema dell’informazione: a chi giova un certo modo di fare inchiesta?
Le indagini della procura di Perugia aprono la delicatissima questione di quello che viene definito il giornalismo di inchiesta. Da un lato, giustamente, si ricorda che se il giornalismo non è libero di sottoporre a controllo critico quanto avviene nella sfera pubblica (diverso sarebbe il discorso per la sfera privata), esso perde una fondamentale ragione d’essere. Dal lato opposto ci si interroga, altrettanto giustamente, se questo compito possa essere trasformato in una sorta di licenza a usare ogni metodo per esercitare la critica, la quale, è bene ricordarlo, non può essere a priori esentata dalla verifica dei fini che si pone.
È un crinale difficile, che tocca, come sempre quando si utilizza una posizione in qualche modo di potere (e i media vi sono coinvolti), tanto i diritti al rispetto degli individui quanto i necessari equilibri che devono reggere il sistema politico e sociale.
Facciamo uno sforzo per inquadrare il tema. Ci sono due tipi di inchieste giornalistiche. La prima è quando si parte da un fatto e si decide di approfondirlo. La seconda è quando si parte da un personaggio e si scava nella sua attività alla ricerca di qualcosa che possa metterlo in cattiva luce. Non sono due fattispecie equivalenti. Nel primo caso si vuole indagare su un evento che è almeno supponibile a priori che sia negativo per il sistema politico e/o sociale. La conoscenza di questo evento negativo arriva al giornalista o perché è già divenuto noto, o perché lo ha scoperto avendo avuto sentore della sua esistenza. Il fulcro in questo caso è nell’ulteriore attività investigativa con cui il giornalista segue piste, contatta testimoni, scandaglia ambienti.
Piuttosto diverso è il secondo caso. Qui il giornalista non parte da un fatto, ma dall’interesse che riveste un certo personaggio (che può essere un politico, un influencer, un uomo d’affari, un imprenditore ecc., poco importa) e su di esso raccoglie notizie varie, non perché abbia di mira un obiettivo specifico circa qualche fatto, ma sostanzialmente per delegittimare il soggetto presentando dati riservati, anche non penalmente rilevanti o disdicevoli (non conosciamo casi in cui si siano cercati dati per legittimare con queste modalità un personaggio presentandolo come positivo). Oggi il metodo con cui il giornalista ottiene le informazioni non è più il pettegolezzo del portinaio o degli avventori di un bar, come si usava una volta, ma l’individuazione di un confidente che abbia accesso all’enorme disponibilità di banche dati e che gli passi tutto quel che può ricavare per questa via.
Siamo davanti al metodo che è stato definito della pesca a strascico, in polemica, come è noto, con il modo di indagare di alcuni magistrati che raccoglievano dati di ogni genere per poter poi selezionare quelli che, a loro giudizio, potevano mettere nei guai giudiziari qualcuno dei soggetti catturati compulsando banche dati e intercettazioni varie.
Proprio chi ha a cuore la difesa del ruolo di controllo che può esercitare il giornalismo dovrebbe aprire una serena ed equilibrata riflessione sulle modalità con cui si esercita questo compito che è costituzionalmente garantito dalla libertà di stampa (che, diciamolo ora per inciso, non può significare libertà di fare quel che si vuole essendo esentati da ogni responsabilità). In un contesto in cui il “personaggio” diventa più importante del “fatto”, va tenuto conto della tentazione che esiste di trasformare tutto in una macchina per la delegittimazione, per non dire per la distruzione di immagine di quei personaggi che non piacciono o a chi produce l’informazione o a quella parte di opinione pubblica che è incline al settarismo più o meno radicale, oppure più o meno dolce.
Ripetiamo che siamo ben consapevoli della difficoltà di individuare con precisione il confine fra critica legittima e critica faziosa o comunque ispirata dal desiderio di creare il mostro (mostro nel significato letterale del termine: caso eccezionale e rilevante). Per questo non serve a nulla dividersi fra chi esalta un certo tipo di giornalismo d’inchiesta, che disvelerebbe i segreti inconfessabili del potere o del successo, e chi ritiene comunque preferibile non interrogarsi sulle opacità, o peggio, che esistono in questi ambiti.
Serve piuttosto promuovere una coscienza pubblica che da un lato rifugga dalla rappresentazione aprioristica di una società tutta corrotta, dedita a maneggi inaccettabili (a parte ovviamente ciò che fanno gli amici e sodali), ma che dall’altro chieda una costante attenzione a quel che avviene, cioè ai fatti, agli eventi, per indagarne e capirne le dinamiche.
Di fronte a quel che viene alla luce con l’inchiesta del procuratore Cantone a Perugia, in collaborazione col procuratore della Direzione antimafia Melillo, c’è molta materia per interrogarsi. Al di là di capire come siano stati possibili usi così distorti di strumenti informatici molto delicati e di vedere come porvi rimedio, oltre alle doverose indagini sull’esistenza o meno di regie in queste attività (nel caso plurali, perché è difficile immaginare uno stesso centro che sia interessato tanto ai politici quanto a personaggi pubblici d’altra tipologia), è importante che il sistema dell’informazione si ponga il problema di rispondere alla domanda essenziale: a chi giova un certo modo di fare inchiesta? La risposta non vorremmo che fosse banalmente: a fare scoop a qualsiasi costo pur di alzare l’audience, a fidelizzare lettori che vogliono essere confortati nella loro percezione di una realtà che giudicano corrotta perché non piace la fatica di misurarsi con la complessità della nostra fase storica.
Ci paiono domande molto serie. Se il giornalismo, che per fortuna da tanti punti di vista mostra di resistere a queste sirene, prenderà questi interrogativi in considerazione, farà un atto investigativo sulla propria realtà e gioverà molto al progresso della nostra vita pubblica.
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