17 Mag Giorgia detta Giorgia: il nome e la cosa
Tratto da Volerelaluna, di Michele Prospero.
Se, come osserva Prodi, la candidatura del leader, per un incarico che in ogni caso non coprirà, infligge una “ferita” alla democrazia, la fiamma tricolore ha già vinto nella sua missione di tramortire la Repubblica: tutti i partiti, eccezion fatta per Lega, M5S e Alleanza verdi sinistra, mettono in lista segretari, ministri, deputati, presidente del Consiglio. Il voto diventa così un congegno senza soggetto, un rito oscuro di sostegno indefinito a un nome sganciato da qualsiasi legame programmatico nell’espletamento delle funzioni di rappresentanza. Il consenso ricercato per non essere eletto segna perciò un pervertimento completo del rapporto politico nel segno di una infantilizzazione della nozione di popolo che mostra inquietanti tracce di dispotismo in gestazione.
Il discorso (si fa per dire) che Giorgia detta Giorgia ha pronunciato a Pescara rappresenta una ulteriore accelerazione nel disegno di democratura. La integrale commercializzazione della comunicazione politica («Sono sempre solo una di voi, una persona alla quale dare del tu») non è un gioco in cui perdono o guadagnano tutti allo stesso modo. Con la politica ridotta a nulla, la destra radicale ha comunque un vantaggio da incamerare, può infatti perseguire il mandato di realizzare con mezzi nuovi un antico suo contenuto ideologico.
La distruzione della politica, come presa di coscienza collettiva per agire nel mondo e trasformarlo secondo un progetto, rappresenta il programma massimo di ogni formazione reazionaria il cui ruolo storico è sempre stato quello di favorire con ogni mezzo la spoliticizzazione. Sottrai alla sinistra il fondamento ideale-culturale della politica, scoperta come ricerca della forza sociale indispensabile per la costruzione di un conflitto dotato di senso, e prosciughi all’istante la base stessa di ogni funzione di una forza critica.
Per questo grave appare la tentazione avuta da Elly Schlein di mettere il nome nel simbolo (lo fanno per le europee formazioni che vantano nel complesso il 60 per cento dei consensi). Gli editorialisti di Domani, che più la incoraggiano in questa ricerca della “leadership democratica” (Marco Damilano sognava il principe digitale già ai tempi di Renzi, più recente e inopinata è la conversione alla novella plebiscitaria di Nadia Urbinati), se la prendono con le resistenze degli oligarchi che non hanno compreso l’irreversibile spirito del tempo. Su Repubblica Stefano Folli promuove a «priorità politica» una campagna «molto personalizzata» e celebra il “duello” Meloni-Schlein come occasione per «il capo del PD» di conquistare la leadership grazie al «realismo di capire che la politica moderna si fa intorno alle persone, prima che intorno alle idee». Il rimprovero che Folli muove verso Schlein è di essere stata «troppo timorosa e quindi accomodante» al punto da rinunciare al nome nel simbolo e alla candidatura «tutta politica» in ogni circoscrizione elettorale. Insomma, tutti i sistemi politici europei per la Repubblica sono degli ancestrali regimi incapaci di comprendere le moderne esigenze della leadership che implicano il ricorso a candidature fittizie e a partiti-persona.
In realtà il voto sulla persona, come ha notato Gianfranco Pasquino, più che un approdo epocale indica una trasfigurazione del principio di responsabilità o accountability che garantisce il controllo della rappresentanza e del governo. Il decano dei politologi italiani ha aggiunto anche che «questa forma di consenso personalizzato all’estremo caratterizza la politica nei regimi autoritari». Il rapporto capo-popolo senza più mediazioni, nel segno di una delega nominalistica richiesta in modo folcloristico quale insondabile legame intimo tra la massa e il carisma del leader, spegne la complessità della politica, annichilisce la qualità della democrazia. Per fortuna allora gli “oligarchi” del Nazareno hanno reagito a una operazione dal significato evocativo che avrebbe avuto una ricaduta catastrofica.
Non si tratta, infatti, come si legge in un editoriale della Stampa, di mettere il nome nel simbolo per congegnare una pura opzione di marketing, senza ulteriori significati teorici. A riprova di questa asserzione, che reputa la faccenda dei partiti personali come una questione di scarso conto, Federico Geremicca portava riferimenti storici sbagliati per cui «il partito personale per antonomasia», quello di Berlusconi, non indicava il nome del capo (comincia a farlo nel 2006 tra le proteste di politologi come Sartori e Fisichella) al pari del M5S che «di nomi, nel simbolo nessuna traccia» (nel voto del 2013 il logo sulla scheda recava proprio la dizione “beppegrillo.it”).
Mettere il nome nello stemma di partito, o impostare una campagna elettorale sul brand del capo, per la destra è una postazione conquistata, che consente di negare “la realtà della realtà”. Per la sinistra la rinuncia a nominare i differenziali di potere, che si sprigionano tra le pieghe del rapporto sociale, indica una capitolazione. Non c’è sinistra che possa conservare un pur pallido ruolo accettando di competere trasferendosi sul piano della politica declinata come puro marketing: partecipare al gioco significa già aver concesso al nemico tutto, la riduzione della stessa politica a merce indifferente. Il consenso diventa acclamazione, la rappresentanza scivola nella rappresentazione, il mandato politico-programmatico si perverte in accettazione senza scopo.
Che la fiamma tricolore coltivi una simile considerazione dei “riti cartacei” sta nel suo codice genetico. Che anche il PD e i cespugli centristi si accodino alla banalizzazione delle elezioni è un elemento preoccupante, che peraltro rende in prospettiva quasi disarmata la resistenza al premierato elettivo. Sfugge al ceto politico di opposizione che il premierato, che unifica due poteri nel solo corpo del presidente eletto, il quale con la propria unzione recide l’autonomia del Parlamento e in prospettiva degli organi di garanzia, è il compimento di una curvatura del potere personale che inverte la weberiana categoria del potere formale-legale come indicatore della spersonalizzazione-razionalizzazione dell’autorità. L’incomprensione delle ricadute della personalizzazione dei partiti e del potere facilita la presa del verbo carismatico che dispone il pubblico passivizzato (dai media unificati, che sfornano paginate sulle sparate di un generale che scambia l’Italia per una caserma in cui intrattenersi con battute pecorecce) all’aspettativa salvifica di un capo.
Anche il Corriere, dopo l’inno prolungato alla leadership personalizzata quale argine contro la casta partitocratica, si accorge che nella vecchia Europa il partito personale, con il nome del segretario impresso sulla scheda, costituisce una eccezione assoluta. In nessun altro sistema politico segretari, capi di governo, ministri si candidano ingaggiando una battaglia fasulla, senza prospettare al popolo l’effettiva natura della contesa. Le elezioni che giocano a moscacieca con il popolo-sovrano diventano una sorta di contratto nullo e la mistica della personalizzazione serve per non nominare nello spazio pubblico la parola guerra e lasciar cadere come irrilevante la affermazione del ministro della Corona circa l’invio di sofisticati missili italiani impiegabili anche per scopi offensivi.
In tempi di contrazione autoritaria, che procede dagli USA all’Argentina, la resistenza al Governo che cerca di politicizzare gli organi neutri dello Stato per restringere gli spazi della mobilitazione collettiva e animare lo spettro del potere monocratico strisciante non può essere affidata all’apprendistato delle tecniche della manipolazione o alla fabbrica artificiale di una contesa bi-leaderistica. Quando, oltre al chiacchiericcio sul nome di battesimo da scrivere sulla scheda, la divisa e il manganello diventano oggetto di culto per colpire ogni conflitto, si avverte il gelido brivido per le conseguenze latenti dell’intrattenimento abruzzese di Giorgia detta Giorgia.
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