12 Mag ESSERE DONNE IN CARCERE
Tratto da L’essenziale di Luigi Mastrodonato
Quando nell’agosto scorso Marianna ha passato la prima notte nell’Istituto a custodia attenuata per detenute madri (Icam) di Milano, ha dormito bene come non faceva da tempo. Avere di fianco sua figlia le ha trasmesso serenità, un sentimento che non era mai riuscita a provare nei sei mesi precedenti, mentre era in carcere da sola. Le giornate trascorrevano tutte uguali, senza niente da fare, nemmeno le attività di base previste per i detenuti, quasi esclusivamente riservate alla sezione maschile.
Marianna, 42 anni, ha vissuto tutti i problemi che contraddistinguono la detenzione femminile in Italia: intrappolate in un sistema pensato al maschile, le donne finiscono per essere dimenticate in cella. L’Icam è riuscito ad attenuare queste criticità, ma solo in parte. “Qui si sta meglio, però non mancano i momenti di sconforto”, ammette. “Portare mia figlia in una struttura come questa non è stata una scelta facile”.
Secondo i dati del ministero della giustizia, il 31 marzo 2023 le donne nelle carceri italiane erano 2.477. Poco più del 4 per cento del totale della popolazione detenuta, una quota da sempre molto bassa. Questa presenza minoritaria ma costante ha fatto sì che nel paese si sia imposto un sistema carcerario declinato al maschile nelle norme e nell’organizzazione, insensibile alle esigenze delle detenute. Fino al 1975, per esempio, le sezioni femminili erano affidate agli ordini religiosi, che portavano avanti forme di rieducazione moralizzanti e paternalistiche. Ancora nel 2008, il ministero della giustizia ammetteva“un’oggettiva difficoltà nel riconoscere e accogliere la complessità del femminile” nel sistema penitenziario e “un’evidente difficoltà a elaborare accorgimenti organizzativi e offerte riabilitative idonei a cogliere e valorizzare la specificità della popolazione detenuta femminile”.
Oggi le strutture penitenziarie interamente femminili sono solo quattro e ospitano un quarto delle donne in carcere. Le altre scontano la pena in sezioni interne alle carceri maschili, rimanendo nascoste e quindi perlopiù escluse dalle attività e dalle forme di assistenza previste. A peggiorare le cose, presso il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) non esiste un ufficio che si occupi la detenzione femminile.
Invisibili
“Gli uomini avevano il corso di teatro, le attività sportive, gli strumenti musicali. Noi nulla, potevamo giusto camminare nel cortile di cemento aspettando la notte. Molte si facevano dare psicofarmaci per dormire anche di giorno dato che il tempo non passava mai”. Maria, 61 anni, nel 2022 ha trascorso sei mesi in un carcere lombardo. Un’esperienza che definisce doppiamente terribile, per il pessimo stato del carcere e per il suo essere donna.
“I pochi educatori presenti stavano nella sezione maschile. A noi era concesso uno sporadico corso di cucito e non potevamo nemmeno comprare una tinta per capelli. Ce la passava il cappellano sottobanco”, continua. La situazione era critica anche per le condizioni igienico-sanitarie. Celle minuscole e sovraffollate, materassi strappati, insetti, tubature rotte. “I bagni erano alla turca, c’erano persone di una certa età che facevano fatica perché non c’era niente a cui tenersi. Il bidet non funzionava quasi mai”, ricorda. Il regolamento dell’ordinamento penitenziario del 2000 stabilisce che le sezioni femminili debbano essere fornite di bidet, ma Associazione Antigone, che l’8 marzo ha pubblicato il suo primo rapporto sulla detenzione femminile, ha rilevato che questo succede solo nel 66 per cento delle prigioni.
Valentina, 32 anni, ha passato alcuni mesi in un altro carcere lombardo e racconta criticità simili. “Nel maschile giocavano a pallone e facevano diverse attività, da noi invece c’era giusto un corso di cucito o braccialetti un’ora a settimana”, racconta. “Loro avevano il wc in cella, da noi c’erano le turche e non c’era il bidet. Il bagno era completato da un lavandino e un mobiletto con il fornello: ci toccava cucinare lì”. Gli assorbenti dovevano comprarseli, idem la carta igienica, fornita in quantità limitate. Chi non poteva permettersi queste spese si affidava alla generosità delle altre donne. Mancavano i ginecologi, mentre gli ambulatori si trovavano nel reparto maschile. “Da noi arrivavano solo gli psicofarmaci”, spiega. “C’erano ragazze sempre chiuse in cella a dormire, imbottite di pastiglie. Insistevano perché le prendessi anch’io, è proprio una consuetudine”. La visita dei suoi due figli, l’unico momento di gioia per Valentina, si trasformava in un incubo: le detenute ammassate per poco tempo in una piccola sala, l’impossibilità di avere un momento di intimità. “Ho smesso di farli venire, sono stata forzata a questa decisione”.
Se la situazione nelle sezioni femminili delle carceri maschili è difficile, negli istituti esclusivamente femminili si riesce a fare qualcosa di più. È il caso della Giudecca a Venezia, dove alle detenute sono offerte diverse attività, alcune molto originali: Associazione Closer, per esempio, dal 2016 organizza l’Ias (Interrogatorio alla scrittura), un ciclo di eventi letterari all’interno del carcere aperti alla cittadinanza e condotti dalle detenute. Nel carcere femminile romano di Rebibbia è invece nata nel 2018 la squadra femminile di futsal, il calcio a cinque, di Atletico Diritti, che nei week end gioca partite di campionato con avversarie che vengono da fuori.
Ma tranne le poche storie positive, la situazione generale è critica. E nelle carceri minorili non va meglio. Come sottolinea Antigone, a gennaio 2023 sui 385 giovani reclusi nei 17 istituti minorili solo dieci erano ragazze, il 2,6 per cento del totale. Una percentuale più bassa di quella delle detenute adulte, da cui deriva la medesima condizione di invisibilità. Il rapper Kento da anni tiene laboratori di rap e poesia nelle carceri minorili italiane, ma non li ha mai potuti svolgere con le ragazze. “Le donne non possono seguire le attività con operatori uomini, in più essendo poche ricevono meno attenzione e hanno minori opportunità”, spiega. Kento è riuscito in alcuni casi a lavorare con le ragazze attraverso le loro insegnanti ed educatrici, che hanno trovato il modo di gestirei testi e correzioni per corrispondenza. “Se i carcerati sono gli ultimi, le carcerate e ancor di più quelle degli istituti minorili sono le ultime tra gli ultimi”, osserva il rapper.
Di fronte a testimonianze di questo tipo, non stupisce che Antigone nel suo rapporto scriva che l’ordinamento penitenziario italiano non rispetta gli standard internazionali contenuti nelle regole penitenziarie europee, in quelle dell’Onu e nelle norme delle Nazioni Unite che disciplinano il trattamento delle donne detenute e le misure non detentive per le donne autrici di reato.
Bambini in carcere
Se le donne sono perlopiù assenti nella legislazione carceraria italiana, il poco che c’è è rivolto soprattutto ai bisogni della maternità. Non a quella di chi ha figli fuori, bensì a quella di chi per contingenze esterne si trova ad affrontare la detenzione con i figli piccoli. La legge del 1975 sull’ordinamento penitenziario prevede che le detenute madri possano tenere con sé i figli fino ai tre anni in apposite sezioni nido interne alle carceri. La legge 62 del 2011 ha alzato il limite a dieci anni, ha istituito le case famiglia protette e ha introdotto ufficialmente gli Istituti a custodia attenuata per detenute madri (Icam), strutture esterne alternative alle sezioni nido. Al 31 marzo 2023 il sistema penitenziario italiano conta 25 detenute madri con 28 bambini. Ventuno di loro, con 23 bambini al seguito, si trovano nei cinque Icam operativi.
L’Icam di Milano San Vittore, un elegante palazzo situato in un quartiere benestante nella parte orientale della città, sa nascondere bene la sua natura detentiva. Certo, per entrare bisogna superare una serie di cancelli e gabbiotti metallici, il giardino è protetto da barriere di plexiglass e in portineria è obbligatorio lasciare gli effetti personali. Una volta dentro però l’invisibilità delle sbarre, la libera circolazione delle detenute e i colori sgargianti delle pareti confondono. Sembra di trovarsi in un asilo e inizialmente si fa anche fatica a distinguere detenute, agenti ed educatrici dal momento che sono tutte in abiti civili.
È da poco passato mezzogiorno e Marianna attraversa il corridoio in direzione della sala comune con un carrello ricoperto di piatti: il menù del pranzo prevede pasta con le zucchine ei cotoletta alla milanese. In questi giorni è il suo turno di lavoro in cucina, altre detenute sono invece impegnate nella sala lavanderia. Ricevono una retribuzione per questi impieghi, che sono soprattutto un modo per far passare il tempo. Nei corridoi rimbomba il pianto di un bambino di pochi mesi di origine bosniaca – cinque delle sei detenute presenti sono straniere. A quest’ora della giornata ci sono solo i più piccoli, gli altri bambini sono all’asilo: li accompagnano e li riprendono gli educatori, che sulla strada del ritorno magari gli comprano un gelato “per procura” con i soldi delle madri, che possono uscire solo in cortile a orari prestabiliti.
Finito il pranzo e riordinata la cucina, Marianna trova un po’ di tempo per parlare. “C’è pochissima informazione sugli Icam. Io ho saputo della loro esistenza dopo diversi mesi di detenzione. A quel punto ho fatto richiesta per entrarci: anche mio marito è in carcere e nostra figlia era in affido, ho pensato fosse giusto farla tornare quanto meno con me”, spiega. Nel giro di pochi giorni Marianna ha ottenuto il nullaosta e all’inizio dell’agosto 2022 è avvenuto il trasferimento. “Qui l’ambiente ti rasserena rispetto al carcere, è più facile costruire relazioni sociali, riusciamo perfino a lavorare e c’è qualche attività in più”, continua. Ci sono una scuola di italiano e corsi per la licenza media, oltre che laboratori di pittura e cucito. Una stanza è stata trasformata in ludoteca, c’è anche l’ambiente tv. La notte le donne dormono accanto ai loro figli in camere doppie.
A Marianna mancano pochi mesi per espiare la pena. Nonostante questo, il magistrato di sorveglianza continua a negarle i permessi-premio. “Qualche tempo fa c’è stata la recita di mia figlia all’asilo, ho chiesto di andarci come avevano fatto altre detenute in passato, ma non c’è stato verso”, chiosa. “La sensazione è che le istituzioni non si rendano conto di cosa significhi entrare in carcere e rimanerci, tanto più con dei bambini. Io ho sbagliato, sto pagando ed è giusto così. Ma il fatto che non mi diano i permessi e che a fine pena io debba stare ancora qui con una bambina invece che ottenere misure alternative ti fa perdere la fiducia nello stato. Sembra che vogliano farceli stare i bambini qui dentro”.
La più grande paura di Marianna è che questo periodo nell’Icam possa avere strascichi sulla crescita della figlia. Ogni tanto la piccola piange e si sdraia davanti alle porte blindate dicendo che vuole andare a casa. Con gli agenti e gli educatori si è instaurato un rapporto amichevole, il più anziano di loro viene chiamato “il nonno”: un calore che aiuta, ma non risolve i problemi. “Con tutti i suoi elementi positivi questo resta comunque un luogo detentivo”, ammette Marianna. “Abbiamo regole e restrizioni noi e di riflesso ce le hanno anche i bambini”.
Riforme impossibili
Il sistema degli Icam è considerato un fiore all’occhiello dell’amministrazione penitenziaria italiana. Questo un po’ per meriti suoi, un po’ per i demeriti delle altre soluzioni esistenti.
“Qui si è cercato di creare la migliore condizione possibile con i mezzi legislativi ed economici a disposizione”, sottolinea Marianna Grimaldi, educatrice all’Icam di Milano. “Si cerca di garantire ai bambini tutto quello di cui hanno bisogno, di fargli fare una vita il più possibile simile a quella che farebbero fuori. Certamente si potrebbe fare ancora di più”. L’Icam di Milano è nato nel 2006, prima ancora che la legge del 2011 li introducesse ufficialmente. Una scommessa dell’allora direttore di San Vittore, che ha voluto porre fine alle cosiddette sezioni nido, una sorta di matrioska incastrata nelle sezioni femminili a loro volta racchiuse nelle carceri maschili. “Le sezioni nido sono un’aberrazione, ma purtroppo esistono ancora. La legge 62 ha avuto il merito di riconoscere gli Icam, ma si è dimenticata la cosa più importante: chiudere quelle sezioni”, continua Grimaldi. “Se si dice mai più bambini in carcere allora bisogna dire innanzitutto mai più bambini dentro a un carcere maschile o femminile, quello fatto di rumori metallici, sbarre, blindi e urla”.
Oggi in Italia ci sono tre detenute madri che si trovano ancora in quelle sezioni, divise tra Roma, Foggia e Perugia. Ambienti separati dalle altre celle e pensati ad hoc, che si trovano però in strutture carcerarie vere e proprie con tutti i disagi che ne conseguono. C’è a chi va ancora peggio, come una detenut nel carcere di Lecce, dove la sezione nido non esiste e per lei e il figlio è stata improvvisata un’area di ospitalità temporanea. La parlamentare del Partito democratico Debora Serracchiani nei mesi scorsi aveva presentato un disegno di legge che cancellava le sezioni nido, lasciando come uniche possibilità gli Icam e le case famiglie protette. La proposta è stata poi ritirata dopo che Fratelli d’Italia ha presentato alcuni emendamenti che avrebbero snaturato il testo.
Una riforma sui bambini in carcere è lontana, ma in generale servirebbe cambiare quel modello italiano di detenzione femminile fondato su invisibilità e discriminazioni. “Nel libro di Mary Gibson Le prigioni italiane nell’età del positivismo c’è un capitolo sulle carceri femminili dal periodo preunitario alla prima guerra mondiale. Ho trovato una continuità impressionante con il periodo attuale, non solo per quanto riguarda le donne ma per il carcere in generale”, sottolinea Tamar Pitch, filosofa e sociologa del diritto. “Storicamente c’è sempre stato un forte disinteresse nei confronti della detenzione femminile. Le donne in carcere non sono considerate un problema: sono poche, fanno meno rivolte, non sono rumorose e dunque vengono ignorate”, continua Pitch.
Come sottolinea Antigone, oggi la quasi totalità delle donne si trova in carcere per piccoli reati contro il patrimonio o per droga. Un quarto di loro ha addirittura un residuo pena di meno di un anno. “Servirebbero politiche di depenalizzazione e di decarcerizzazione delle donne, sarebbe una soluzione al problema della detenzione femminile in Italia. Tuttavia già da 10-15 anni e ancora di più oggi l’accento è tutto sulla sicurezza e la punizione invece che sulla riabilitazione. Un cambiamento delle cose resta un miraggio”.
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