27 Ott Elogio dell’altra via
Tratto da Centro Studi Piero Gobetti
Editoriale di Pietro Polito
Non abbiamo precedenti di ciò che è accaduto oggi e le conseguenze di questo attacco saranno senza dubbio terribili. Più violenza, più morti, più dolore per tutti. E così in fin dei conti comincia il Ventunesimo secolo.
Sono parole del grande scrittore Paul Auster e risalgono all’alba del 12 settembre del 2011[1]. Nel decennio successivo la scia di violenza, morte, dolore si è accresciuta e si è allungata fino all’invasione dell’Ucraina da parte della Russia di Putin e alla reazione dell’Occidente in sostegno del popolo ucraino, fino all’attentato terroristico di Hamas e alla reazione di Israele contro Gaza. Se non ora, quando gli amici e le amiche della nonviolenza sono chiamati ad affermare con la testimonianza, con il pensiero e con l’azione che c’è un’altra via?[2].
L’azione terroristica di Hamas è l’espressione di una volontà di strage per la strage fine a se stessa, ignobile, esecrabile e in quanto tale ingiustificabile con argomenti storici, morali o sociali[3]. Dopo avere pronunciata e condivisa la condanna senza appello dell’atroce attentato, non possiamo non porci due domande fondamentali. La prima: perché siamo arrivati a questo, dimenticando la Questione palestinese o illudendoci che l’avremmo risolta semplicemente con quello che David Grossmann ha chiamato la «pace dei ricchi»? La seconda: «che fare, adesso che forse non basta più morire per Kiev, ma forse servirà farlo anche per Gerusalemme»?[4].
Nel dibattito si è delineata una contrapposizione tra proporzionalisti e interventisti. Per i primi, emblematico “Avvenire”, andare «oltre ogni proporzionalità va contro lo spirito della pace e probabilmente sparge i frutti avvelenati di nuovi conflitti»[5]; per i secondi, emblematico “Il Foglio Quotidiano”, dire che «la difesa non è sempre legittima, “deve essere proporzionata”» significa (significherebbe) che «chi non vuole la pace non è il terrorista che attacca ma è il democratico che si difende»[6]
Se si solleva lo sguardo oltre la polemica giornalistica e ci si pone sul piano della ricerca della pace, ci si rende conto che sono due le alternative possibili alla guerra. Una, evocata da Massimo Giannini, è la via della pace attraverso il diritto, che non esclude il ricorso alla forza esercitata dalla comunità internazionale in forme proporzionate all’offesa: «Servirebbe il ‘Terzo per la pace’ di cui parlava Norberto Bobbio. Il mediatore forte e riconosciuto, il Defensor pacis che inchioda le parti al compromesso. “Nell’attuale sistema internazionale questo Terzo non esiste, né se ne profila uni credibile all’orizzonte”. Il grande filosofo torinese lo scriveva nel 1989. Oggi, purtroppo, è ancora più vero di allora»[7].
L’altra via è la via della nonviolenza che in Italia è stata rappresentata da Aldo Capitini[8]. Se dovessi riassumere in modo sintetico la sua lezione, direi che il messaggio di Capitini è racchiuso nell’idea che bisogna «sottrarre l’anima ad ogni collaborazione con quell’errore», la violenza, e che occorre «instaurare da subito, a cominciare dal proprio animo (che è il primo progresso) un nuovo modo di sentire la vita»: la nonviolenza[9]. Per Capitini, il passaggio dal regno della necessità al regno della libertà (auspicato da Marx) richiede primamente il passaggio dal regno della violenza al regno della nonviolenza: questo era (per lui) e rimane (per noi) «il varco attuale della storia»[10].
La critica nonviolenta muove da una premessa fondamentale che Capitini formula in questo modo: «dire che c’è sempre stata violenza sarebbe confondere una constatazione storica con il dover essere» [11]. Dal punto di vista nonviolento, la violenza è destinata tendenzialmente a scomparire e, quindi, ad avere un ruolo sempre meno decisivo nella storia: «La fiducia nei mezzi violenti — precisa Capitini — è ingannevole e distoglie dal cercare febbrilmente dei modi preventivi che scendano alla radice intima» [12].
La via della nonviolenza presuppone una svolta nel «realismo politico» (sia dei conservatori sia dei rivoluzionari) e prelude a «un nuovo modo di agire, vincendo la ripetizione della storia secondo categorie consuete, considerate in un numero chiuso”: “perché realista è chi sa gettare nel profondo del suo tempo lo scandaglio, e avverte non ciò che ripete il passato come fu, ma ciò che apre, che rinnova energicamente» [13].
In questa nuova prospettiva, la condanna della violenza è assoluta. Nessuna violenza è giusta, nemmeno la violenza rivoluzionaria. (Nemmeno, occorre dire oggi, la violenza in nome della democrazia). Questo è un giudizio che Capitini ribadisce in diversi momenti storici significativi. Due esempi. Ancora negli Elementi di un’esperienza religiosa (ricordo che il libro è del 1937), afferma: «da violenza nasce violenza, e si diffonde una diseducazione generale: giungono tempi tragici, e ai violenti di ogni specie che non vogliono ascoltare nulla, si oppone l’attestazione che dà qualche anima del valore della sua verità» [14].
E, a distanza di trent’anni, in Le tecniche della nonviolenza (1967), in reazione al nuovo affascinamento esercitato dalla violenza rivoluzionaria e dalla guerriglia anche sulle coscienze più avvertite: «nessuna società può durare nella continua violenza e si appiglia a qualsiasi soluzione pur di farla finire; e perciò la violenza anche rivoluzionaria prepara la strada ai tiranni» [15].
Il messaggio di Aldo Capitini qua è là è affiorato nei commenti più consapevoli dei rischi di una escalation incontrollata della violenza. Come ha scritto il direttore de “La Stampa”, Andrea Malaguti, «la violenza inghiotte ogni cosa, confonde i pensieri, rende complicati i ragionamenti, alimenta la cattiveria e i franatismi». E ancora: «Gridare la parola «pace», cercarla con tutte le capacità che abbiamo, sembra fuori tempo e fuori luogo. Eppure non è mai stato tanto necessario» [16].
Se non possiamo avere la pace ora, dovremmo cominciare a costruirla. Ma la domanda posta da Daniel Barenboim: «E adesso? Ci arrendiamo a questa terribile violenza e lasciamo che la nostra ricerca della pace muoia o continuiamo a insistere che ci debba e ci possa essere la pace?» [17], pare destinata a rimanere inascoltata. Non finirà presto questa notte.
Note:
[1] Le ha ricordate Mario Ricciardi, Il ritorno funesto dello scontro di civiltà, “il manifesto”, venerdì 10 ottobre 2023, pp. 1 e 15.
[2] Alla domanda “La non violenza è possibile durante la guerra?”, la grande filosofa ebrea Judith Butler risponde: “No, ma non è una ragione per rinunciare ad affermarla. A volte affermiamo l’impossibile. Qualcuna deve farlo. Altrimenti diventiamo tutti guerrieri, accettiamo la real- politik”. Dall’intervista, Solo una democrazia radicale può porre fine alla violenza, a cura di Giansandro Merli, “il Manifesto”, martedì 17 ottobre 2023, p. 4.
[3] Corrado Augias, L’orrore di Hamas che infrange la legge morale della nostra civiltà, “la Repubblica”, 15 ottobre 2023, p. 13.
[4] M. Giannini, Bobbio e il mediatore, “la Repubblica”, venerdì 13 ottobre 2023, p. 33.
[5] Angelo Lavazza, Distinzione e proporzione, “Avvenire”, Domenica 15 ottobre 2023, p. 13.
[6] Anche questa volta per i talk-show è tutta colpa dell’occidente, “Il Foglio Quotidiano”, lunedì 16 ottobre 2023, p. 4. Editoriale non firmato.
[7] Ibidem. Cfr. N. Bobbio, Il terzo assente. Saggi e discorsi sulla pace e la guerra, a cura di P. Polito, Sonda, Milano 1989. Angelo Lavazza, Distinzione e proporzione, “Avvenire”, Domenica 15 ottobre 2023, pp. 1 e 13 sostiene che andare “oltre ogni proporzionalità va contro lo spirito della pace e probabilmente sparge i frutti avvelenati di nuovi conflitti”.
[8] M. Martini, L’altra via di Aldo Capitini, introduzione di P. Polito, aras edizioni, Fano, 2023.
[9] A. Capitini, Elementi di un’esperienza religiosa, Ristampa anastatica dell’edizione 1947, prefazione di N. Bobbio, Cappelli, Bologna 1990, p. 21.
[10] A. Capitini, Elementi di un’esperienza religiosa, cit., p. 21. Ha affermato Bobbio: “il vero salto qualitativo non sarà il passaggio dal regno della necessità al regno della libertà, come riteneva Marx, ma il passaggio dal regno della violenza al regno della nonviolenza [intendi: come riteneva Capitini]” (Ricordo di Aldo Capitini, intervista a cura di P. Polito, in “Il Poliedro”, a. V, n. 14, aprile-giugno 1988, p. 49).
[11] A. Capitini, Elementi di un’esperienza religiosa, cit. p.76.
[12] A. Capitini, Elementi di un’esperienza religiosa, cit., p. 121.
[13] A. Capitini, L’educazione alla pace, “Azione nonviolenta”, dicembre 1964; ora in Id., Scritti sulla nonviolenza, a cura di Luisa Schippa, Protagon. Perugia, 1992, p. 379.
[14] A. Capitini, Elementi di un’esperienza religiosa, cit., p. 134.
[15] A. Capitini, Le tecniche della nonviolenza, Feltrinelli, Milano 1967, p. 40. Segnalo la nuova edizione, con la prefazione di Goffredo Fofi, edizioni dell’asino, Roma 2009.
[16] A. Malaguti, L’emozione è il cuore del ricatto di Hamas, “La Stampa”, domenica 15 ottobre 2023, p. 1. Daniel Barenboim, Riconoscere l’uomo anche nel nemico, “la Repubblica”, 15 ottobre 2023, p. 35:
[17] D. Barenboim, Riconoscere l’uomo anche nel nemico, “la Repubblica”, domenica 16 ottobre 2023, p. 35. L’autore, fondatore della West Eastern Divan Orchestra, è stato direttore dell’Opera di Stato di Berlino e della Scala.
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