09 Dic Cosa perdiamo se perdiamo Twitter
Tratto da valigiablu, di Bruno Saetta
Da quando Twitter è stata comprata da Elon Musk, leggo molte persone sostenere che, in fondo, la caduta di Twitter era inevitabile: troppo tossico come social, troppe persone disfunzionali, troppi litigi, troppo hate speech, insomma un “luogo” irrecuperabile. In fondo meglio così, che cada, fallisca, chiuda. Chi vuole, chi ha qualcosa da dire veramente troverà i suoi spazi altrove.
L’impressione, però, è che sia un’opinione un po’ fuori fuoco. Twitter è un social differente rispetto agli altri. Twitter e Instagram, ad esempio, seguono lo stesso modello di trasmissione, i tweet su Twitter e le foto su Instagram sono pubblici per impostazione predefinita, e chiunque può seguire chiunque, non ci sono limitazioni. Ma mentre Instagram è fondamentalmente basato sulle immagini, e quindi è principalmente votato a seguire marchi e influencer, Twitter rimane ancorato al testo (anche se si possono pubblicare immagini e video). Il cuore del servizio è il testo coi relativi link. La conseguenza immediata è che su Twitter, più che su qualsiasi altro social, è più facile seguire giornalisti, analisti, esperti, ma anche ovviamente odiatori seriali e propalatori di disinformazione. L’obiettivo di Twitter, la sua struttura, è di fornire informazioni, e la densità di informazioni su Twitter non ha uguali in nessuno altro social. Instagram è piacevole e rilassante, focalizzato sulle immagini che sono il centro dell’esperienza umana, Twitter invece è più intenso, basato sul testo si focalizza sul giornalismo, su ciò che accade nel mondo fisico, sia esso sport, o politica, o guerre. Ed è per questo che Twitter ha una base utenti decisamente inferiore a Instagram (circa 400 milioni contro 1,2 miliardi).
Twitter non solo consente ai giornalisti di pubblicare storie per il pubblico, ma permette loro di tenere contatti con fonti, con altri giornalisti, con persone da seguire per approfondire le notizie (comunità accademiche e scientifiche). Twitter ha contribuito a far crescere il giornalismo indipendente e a far conoscere le voci non presenti sui media di massa, ha spinto molti giornalisti ad una maggiore obiettività (per timore di essere sbugiardati online). Inoltre ha consentito di recuperare il gap dei giornali che negli anni hanno cancellato le redazioni locali per questioni di budget.
È questo aspetto che rende Twitter essenziale per le informazioni. L’utente tipo di Twitter si focalizza su ciò che accade nel mondo, e quindi anche su chi è al di fuori della sua cerchia, mentre altri social sono più focalizzati sul grafo sociale, sui contatti, amici e conoscenti, sulla cerchia ristretta. Twitter consente un accesso alle informazioni meglio di qualunque altro social, Twitter è dove le notizie girano, dove sono criticate e combattute. Mentre Facebook progressivamente ha abbandonato qualsiasi velleità di essere un guardiano dei media, Twitter si è incamminato per riempire questo vuoto, per essere il centro dell’informazione online, il luogo del dibattito e della critica, purtroppo anche violenta. Purtroppo è l’altra faccia della medaglia, non puoi avere un’opinione se non hai contemporaneamente la contro-opinione, ci sarà sempre qualcuno che si sentirà in diritto di contestare.
Il vantaggio di Twitter è, però, anche la sua maledizione. L’essere umano è visuale, non focalizzato sul testo, preferisce generalmente un’esperienza rilassante, non combattiva, ecco perché social più visuali sembrano funzionare meglio, creano meno litigiosità, e quindi sono molto più efficaci per attirare pubblicità, e si mantengono economicamente meglio rispetto a Twitter. Twitter è il luogo delle informazioni, delle notizie, anche quelle inutili. E siccome le notizie ormai si trovano dappertutto, si tratta di merce di scarso valore (del resto siamo nell’era dell’informazione). Il flusso di Twitter è di grande impatto, ma economicamente poco utile. L’impatto culturale e informativo di questo strano social è decisamente molto più grande dei ricavi finanziari dell’azienda (circa il 4% di Facebook).
Elon Musk e la sua ristretta cerchia di consiglieri hanno licenziato gran parte della forza lavoro di Twitter, probabilmente non tanto per ridurre i costi (l’effetto è limitato, anche se incide particolarmente sulla capacità di tenere a bada l’hate speech, ormai ridotta al lumicino) ma piuttosto perché hanno intenzione di modificare radicalmente l’essenza del social, e quindi hanno bisogno di partire da una tabula rasa. È significativa la discussione intorno alle “spunte blu”, il marchio che originariamente certifica le celebrità, i giornalisti più affidabili. Vendere la “spunta blu”, come aveva suggerito Musk, è un modo per porre a disposizione di tutti un qualcosa che è elitario, chi compra la spunta blu si sente “speciale” anche se non è uno di quelli che è a rischio di essere “impersonato” da altri (in particolare sembra che i no-vax si stiano muovendo in questa direzione per acquisire “autorevolezza”). Questo è il segno della possibile direzione che forse Musk vorrebbe imporre a Twitter, renderlo più orientato sulle persone. In tal senso è significativo quello che è stata Tesla, l’azienda automobilistica guidata da Musk che, pur essendo un’azienda che vende auto reali, si basa molto su uno status di meme. Con Tesla Musk non vende solo auto, vende un marchio, un’esperienza, il fare parte di una comunità, di un movimento, l’essere un “seguace”. E mentre i suoi seguaci si sono moltiplicati, si sono moltiplicati nel contempo anche gli odiatori di Musk, creando una vera e propria polarizzazione sulla sua stessa persona e sulla sua azienda.
Probabilmente l’intenzione è quella di portare Twitter sulla stessa strada. Ma ovviamente Twitter è qualcosa di completamente diverso, per cui c’è il forte rischio che ciò non si concretizzi.
Noi parliamo da bianchi che vivono in un paese nel quale la guerra arriva solo tramite televisione e social. Conosciamo (poco) la guerra in Ucraina solo perché l’Ucraina è la porta dell’Europa, e l’Europa è interamente coinvolta, e quindi i telegiornali non possono non parlarne, talvolta lasciando spazio purtroppo a personaggi che hanno l’unico interesse di alimentare il proprio ego e i propri interessi personali, facendo provocazioni al solo fine di distinguersi dagli altri, per ottenere visibilità e finanziamenti. L’indignazione è diventata una vera e propria merce da spendere su un social al fine di distinguersi dalla massa, al fine di attirare attenzione, e si sa che l’attenzione è l’unica merce che scarseggia online, e che quindi ha valore. Ma ci sono tante guerre nel mondo, tutt’ora, delle quali sappiamo poco o nulla, anche della stessa guerra civile in Iran abbiamo poche notizie. Per non parlare di quella in Myanmar, Haiti, Sudan, Nigeria, Colombia, Afghanistan…
Ci sono milioni di persone che vivono in paesi in guerra, spesso guerre civili dove i governi aprono il fuoco contro i loro stessi cittadini, e dove c’è un interesse fortissimo che le voci dissenzienti siano tacitate al più presto. Perché il dissenso è la cosa più temibile per un governo autoritario, il dissenso divampa come un fuoco, e si diffonde e incendia gli animi della gente che è stanca delle repressioni, e che quindi scende in piazza a protestare, a rischio della propria stessa vita (l’assunzione del rischio dipende dall’età media, in Iran è di 27 anni ad esempio, in Italia, il paese più “vecchio” dopo il Giappone, di quasi 47). Il ruolo dei social è anche quello di fungere da collante per i dissidenti, per i manifestanti e gli attivisti, favorendo l’organizzazione delle manifestazioni, anche semplicemente facendo sapere ai dissidenti che non sono soli, che esistono tanti che la pensano come loro, e quindi dando forza alle voci contrarie.
Ma non solo, i social si sono distinti anche per aver consentito di documentare le violenze dei governi autoritari sui loro cittadini. Il fatto che se ne parli sui social è essenziale, perché far uscire dal paese quelle crude immagini di violenza, di morti, espone all’opinione pubblica mondiale le nefandezze di un governo e c’è la possibilità che quel governo si ritrovi isolato nel consesso mondiale, e quindi più debole. In alcuni casi i social sono essenziali perché i cittadini di un paese dittatoriale rimangano in vita, perché possano lottare per la libertà, per i loro diritti. E Twitter è uno di quelli che si è distinto in questa direzione.
Il rischio, visto che Musk adesso ha urgente necessità di fare soldi per ripianare il debito caricato su Twitter (circa 13 miliardi), e considerato che Twitter per come è strutturato fatica da sempre a realizzare profitti, è che Twitter possa essere utilizzato dai governi autoritari per silenziare il dissenso interno. Specialmente nei paesi dove c’è un forte controllo sui media televisivi e giornalistici, i social sono l’unico luogo dove i dissidenti possono far sentire la loro opinione, dove possono raccontare gli eventi. Pensiamo, di nuovo, all’Iran che in questi giorni chiude i social perché non deve consentire che i video delle manifestazioni di piazza e della violenta repressione governativa escano dal paese. Del resto l’Arabia Saudita, un paese notoriamente repressivo contro il dissenso politico, è già il secondo investitore in Twitter. E col ritorno di Trump sul social, c’è il rischio che il social possa essere “militarizzato” (di nuovo) per diffondere indignazione e disinformazione, così come fatto in passato, per aizzare gli animi dei cittadini americani. Per creare caos all’interno del quale alcuni personaggi prosperano.
Nel frattempo negli ultimi giorni il feed di Musk evidenzia interazioni con troll di destra, resoconti antisemiti e teorie del complotto. Il solo fatto che questo tipo di post siano presenti sul feed di Musk, con Musk che interagisce con queste persone, determina una enorme amplificazione dei loro messaggi. In un tweetMusk si definisce né di destra né di sinistra, ma ritiene che il “virus woke” stia danneggiando la nostra società e richieda una “contro-narrativa”. L’idea che il proprietario di un social parli di contronarrativa è decisamente pericolosa perché indica che chi ha il potere di vita e di morte sul social prende parte alla contesa, scende in campo, e quindi non è “neutrale” (e non ci prova nemmeno ad esserlo). E’ interessante notare che per “woke culture“, termine non presente in Italia (dove si parla per lo più di “politicamente corretto” ma anche “cancel culture“, si intende l’atteggiamento di chi presta attenzione alle ingiustizie sociali, legate principalmente a questioni di genere e etnia, e quindi “woke” che di per sé è già un termine dispregiativo, si riferisce a chi non è indifferente alle ingiustizie e si impegna per aiutare chi le subisce.
Musk ha consigliato ai suoi follower di votare repubblicano perché ritiene che sia il modo giusto per vedere un governo “condiviso” negli Usa. La sua visione del mondo è quella che viene dall’esperienza Tesla, un mondo diviso in due parti, chi è con lui e chi contro di lui, un mondo polarizzato, nel quale, però, c’è qualcuno che tiene le redini e che decide chi ha ragione. Non sulla base di saperi esperti, ma sulla base della propria esclusiva, personale esperienza puramente soggettiva. Se una volta i politici si rivolgevano al pubblico tramite i media, che fungevano da filtro, adesso tramite i social viene meno questo filtro e i politici – ma anche gli uomini di potere come Musk – possono dire sostanzialmente quello che vogliono. Poi c’è stato il ban di Trump su Twitter. Il passo successivo è stato crearsi i propri social a propria immagine e somiglianza – come Truth Social per Trump, dove nessuno può bannare il “padrone” -.
L’idea di Musk è pericolosamente ingenua, e fuori dalla realtà. Ma è la sua idea, ed è la sua piattaforma adesso.
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