14 Nov Che il grano cresca ancora
di Emilia Perroni tratto da Ha Keillah (la comunità)
Il testo è relativo a un intervento nella Giornata della Cultura Ebraica svoltasi a Firenze il 15/9/2024
Come vedo Israele dopo il 7 ottobre?
Incominciamo con i fatti. Come sappiamo, il 7 ottobre, giorno di Simchat Torà, è stato commesso un vero e proprio pogrom da parte di membri di Hamas nei kibbutzim adiacenti alla striscia di Gaza, ad Ofakim, Sderot ad altri villaggi situati nella periferia e al Nova festival, al quale partecipavano migliaia di giovani.
In un giorno sono stati uccisi più di 1200 israeliani, catturati 255 ostaggi e vi sono stati più di 10.000 feriti e traumatizzati fisicamente e psicologicamente. Nel corso della guerra, decine di migliaia di israeliani hanno avuto la loro casa distrutta, e da allora più di 200.000 persone sia dal nord che dal sud sono state sfollate. In seguito alla reazione di Israele a Gaza hanno perso la vita più di 40.000 palestinesi, centinaia di migliaia hanno perso i loro cari e la loro casa.
Una vera catastrofe! Un evento impensabile ed inimmaginabile, di cui tuttora non cogliamo fino in fondo il significato e le conseguenze.
Ho avuto ed ho tuttora il privilegio di vivere al centro di Gerusalemme, città relativamente lontana dai bombardamenti, grazie alla vicinanza delle due moschee e della città vecchia e non ho avuto nella mia stretta cerchia familiare persone uccise o prese in ostaggio. Sono stata esposta però direttamente alle esperienze traumatiche di molti, fra cui giornalisti e fotografi, che ho trattato, e che sono stati testimoni di atrocità mostruose.
La prima sensazione è stata di terrore: cosa sta succedendo? Ci uccideranno tutti? Israele esisterà ancora? Forse chi non vive in Israele non può capire la paura che esista la possibilità che il proprio Stato possa scomparire. Il mondo ci è crollato addosso. Un periodo molto intenso: preoccupazione, espressioni di odio, di disgusto, di amore (per i caduti, per gli ostaggi e le loro famiglie), di paura, allarmi, sirene, bombe, missili, razzi, rifugi, notiziari, comunicati, manifestazioni, petizioni, richieste di offerte. Un periodo molto intenso di domande: quale è la nostra parte? Valeva la pena lasciare l’Italia e fare l’aliyàh? Un periodo pieno di dilemmi per madri e padri: permettere ai figli di andare a combattere a Gaza o tentare di dissuaderli? Un periodo fatto anche di momenti belli, di fratellanza. Ma la sensazione di essere nudi, senza pelle, indifesi di fronte alle bugie che ci racconta il Governo, nudi di fronte alle nostre parti oscure. Un periodo carico di significato, di discussioni, dibattiti, di nuove rivelazioni. Molti hanno lasciato Israele, non solo per il pericolo ed il cinismo dei governanti, ma anche per il rifiuto di ciò che vivere in Israele comporta. E si può capire.
In questo o in quel modo siamo stati tutti bombardati e Israele dopo il 7 ottobre e la guerra che ne è seguita, non è più l’Israele di prima. Mi pare che tutti noi abbiamo subito un cambiamento, non siamo più le stesse persone. Le famiglie non sono più le stesse famiglie. La società israeliana come famiglia si è smembrata. I genitori non hanno potuto difendere i figli. Il volto di Israele si è trasformato: bandiere ovunque, slogan nazionalistici, molte persone armate per le strade, molti religiosi che leggono i Salmi dal cellulare, espressioni di estremo bullismo nella vita quotidiana e la retorica della guerra. Ci siamo abituati a cenare sentendo notizie di soldati uccisi, di case distrutte e di ritrovamenti di cadaveri.
Siamo stati tutti “catapultati” in una specie di abisso, invasi da notizie squarcianti, non solo della popolazione di Israele, ma anche di quella di Gaza, su cui mi soffermerò in seguito. È scoppiato un vero e proprio bubbone, di tutto: ci siamo trovati travolti dalle forze del male, dalla paura, dall’angoscia, dall’odio, dal bullismo, dalla sete di vendetta fino alla perdita della nostra umanità. Nel mondo occidentale si sono aperte le dighe di protesta e di odio per le azioni militari di Israele e si sono verificate anche molte espressioni di antisemitismo, a volte correlate alla politica israeliana ma non soltanto. L’antisemitismo è sempre esistito e, anche quando non si manifesta apertamente, è sempre latente. Ci sono state anche molte manifestazioni che hanno espresso supporto per Israele senza riserve. Nel profondo, ho sentito emergere anche un enorme senso di solitudine: solitudine di Israele di fronte al mondo, solitudine di fronte alla collusione di violenze con altre violenze, solitudine della popolazione nei riguardi del governo che non ci ha protetto, solitudine nella famiglia, nello scontrarci con familiari che hanno idee diverse dalle nostre, solitudine nella minore libertà di esprimere opinioni diverse da quelle dei nostri amici, una solitudine esistenziale.
Racconto un episodio: gli abitanti del Kibbutz Be’eri, di circa 1100 membri, che molti hanno sentito nominare per la grande perdita di vite umane e di case, sono stati evacuati in uno degli alberghi intorno al Mar Morto. All’indomani del 7 ottobre si sono riuniti e – con la voce spezzata – hanno annunciato uno dopo l’altro i nomi dei caduti: 132 uccisi (fra cui 20 bambini), 32 ostaggi e 108 dispersi, cioè persone che non sono state rintracciate nei vari ospedali. Di lì un silenzio tragico senza lacrime e senza parole, il terrore puro, prima della realizzazione del lutto. E poi il segretario del kibbutz ha rotto il silenzio recitando la poesia “Ha-chittà zomachat shuv” cioè “Il grano cresce di nuovo”, poesia composta nell’anno 1974, dopo la caduta – nella Guerra del Kippur – di 11 soldati del Kibbutz Ben Shita, poesia che è diventata simbolo mitico del desiderio di sopravvivenza. “Il grano cresce di nuovo”, questa è stata la comunicazione del segretario del kibbutz Be’eri. Questo episodio è uno dei tanti che vediamo e sentiamo quotidianamente.
Parlare di post-trauma è inappropriato, perché siamo ancora dentro il trauma, un trauma logorante che consuma i nervi. Tutti – chi più o chi meno – siamo tuttora in uno stato dissociativo, me compresa, e non potrebbe essere diversamente. Nel migliore dei casi continuiamo a lavorare, ad andare al bar, al cinema e proteggiamo la nostra vita quotidiana, ma siamo molto angosciati e dentro abbiamo una frattura: molti hanno incubi notturni, un senso di soffocamento claustrofobico per l’identificazione con gli ostaggi, chiusi in tunnel, oltraggiati, violentati, mutilati e affamati; bambini, anziani, giovani di tutte le estrazioni, ebrei, drusi, beduini, lavoratori tailandesi. Molti superstiti della Shoah hanno rivissuto ciò che hanno vissuto durante il periodo della Shoah in cui famiglie intere sono state trucidate e decimate. Hanno sentito che la loro casa – nel senso profondo del termine (sia house che home) – è stata smembrata.
Le madri ed i padri dei soldati al fronte vivono uno stato di angoscia perenne. I genitori degli ostaggi successivamente liberati hanno vissuto incubi inenarrabili, e quelli che tuttora hanno i loro cari prigionieri a Gaza vivono un inferno che dura ininterrottamente da mesi e mesi. Le famiglie degli ostaggi vivono una realtà drammatica, al di là di ogni immaginazione e vengono spesso tartassate da illusioni che poi vanno in fumo. È difficile immaginare lo stato di angoscia di queste famiglie che sanno che i loro cari – bambini, neonati, giovani ragazze e ragazzi nel fiore degli anni, padri, madri e nonni – sono tenuti prigionieri sottoterra in gallerie soffocanti, tormentati, torturati, con l’incubo che non ne usciranno mai vivi.
In Israele la famiglia è molto importante: le famiglie che sono unite, da un lato, trovano conforto nel supporto dei propri familiari, ma, dall’altro, sono lacerate più che mai perché la perdita di un parente colpisce direttamente tutti i componenti della famiglia, genitori, coniugi, fratelli, sorelle, nonni, cugini. Presso molte famiglie evacuate e costrette a vivere in promiscuità si sono verificati anche casi di abusi sessuali. Nessuno poi si sarebbe immaginato che le famiglie degli ostaggi venissero calunniate dai fondamentalisti di estrema destra e picchiate selvaggiamente dalla polizia israeliana a cavallo e da milizie armate da membri del governo e che finissero addirittura in carcere, perché avevano manifestato per la liberazione dei loro cari.
E così i drammi si aggiungono ad altri drammi. Sono sconcertata di fronte alla brutalizzazione che dilaga nella nostra società e alla perdita delle misure – morali ed estetiche – del comportamento di molti.
“Se questo è un uomo” non è una domanda, ma espressione di sgomento.
Dal 7 ottobre la guerra si allarga sempre più come una macchia d’olio ed ogni giorno sentiamo notizie di soldati caduti, di massacri a Gaza e nei territori occupati, di programmi bellici e di incitamento alla vendetta. La società israeliana (mi riferisco alla parte ebraica della popolazione e non al 20% della popolazione di arabi israeliani) è spaccata in due e si sta verificando una vera e propria guerra fra due culture: quella nazionalista-religiosa, in parte fondamentalista e messianica, che vuole la continuazione della guerra, e quella liberal-democratica che chiede l’interruzione immediata della guerra e le trattative diplomatiche per la liberazione degli ostaggi. Chiaramente si tratta di una schematizzazione e alcuni, da entrambe le parti, hanno posizioni più articolate, ma sto delineando i profili che caratterizzano le principali forze in gioco. Tuttavia già da prima del 7 ottobre è apparso sempre più evidente che gli interessi della attuale coalizione al governo erano e sono tuttora ben diversi da quelli di gran parte della popolazione israeliana.
Esistono anche altre spaccature: quella fra religiosi e laici, fra ebrei e arabi israeliani, spaccature nelle famiglie, nelle amicizie; spaccatura fra la disintegrazione della società nei suoi organi più importanti (il sistema giudiziario, l’economia, l’educazione, la sanità, la sicurezza) da un lato, e l’incredibile fiorire della tecnologia, della ricerca, della cultura, dell’arte, del cinema, del teatro e di iniziative artistiche, dall’altro, spaccatura che tutti sentiamo dentro di noi, un misto di morte e di vitalità. Lo slogan di “Insieme vinceremo” è uno slogan completamente privo di significato ed anche una presa in giro. La principale spaccatura è quella fra un governo incapace, corrotto e reazionario, e la maggioranza della popolazione. Eppure è successo un evento eccezionale: molti hanno reagito al posto del governo con forme di solidarietà di diversi tipi, a volte molto commoventi, e si è costituita così una società civile forte e consapevole, in sostituzione al governo. Voci molto potenti e decise che da un anno e mezzo protestano contro la riforma giudiziaria hanno costruito la base per tale società civile che ha così assunto il ruolo di una famiglia allargata per venire in soccorso agli scampati al pogrom e ai senza tetto. È riuscita in un tempo brevissimo – in soli due giorni – a creare reti di assistenza alle decine di migliaia di sfollati, dando supporto psicologico alle famiglie in lutto e a persone traumatizzate. Moltissimi sono accorsi dal nord per assistere quelli del sud, come se fossero membri della loro famiglia. Migliaia sono stati inizialmente ospitati in case private e nei kibbutzim.
Non credo che l’uccisione di bambini si risolva con l’uccisione di altri bambini. Nietzsche ha affermato: “Chi vuole combattere con i mostri rischia di diventare un mostro anche lui.” La catena di vendette non porta a niente, ma alimenta il furore bellico. Non solo è impensabile dal punto di vista morale, ma dannosa dal punto di vista pragmatico: bambini che vedono i propri genitori uccisi di fronte ai loro occhi, fra vent’anni, saranno i nuovi terroristi.
Il pogrom del 7 ottobre e la guerra tuttora in atto hanno anche colpito la nostra capacità di pensare in maniera articolata. Molti pensano in termini di bianco e nero, la maggioranza degli israeliani pensa solo alla sofferenza della popolazione israeliana e si rifiuta di riconoscere quella degli abitanti di Gaza e dei territori occupati, che è tuttora enorme. D’altro canto, molti palestinesi non riconoscono la sofferenza degli israeliani. Non c’è empatia da nessuna delle due parti e anche l’opinione pubblica mondiale è scissa.
Apro qui una parentesi e mi soffermo sul concetto di empatia.
L’empatia non è solo identificarsi in persone come noi o che la pensano come noi. L’empatia è riconoscere l’altro anche quando è diverso da noi, pensare a lui e comprendere la sua sofferenza sia quando è stata causata da noi sia quando è stata causata da altri. Chiaramente tutti noi ci sentiamo più a nostro agio con quelli che pensano come noi, ma l’empatia impone di superare il nostro ego e i nostri istinti.
Provare sensazioni di vendetta è naturale quando siamo colpiti, ma la morale impone di superarle. Ci vuole coraggio per capire che anche le popolazioni di Gaza soffrono e che non siamo gli unici a soffrire. La mia non è una posizione ingenua né buonista.
Il Medio Oriente è un groviglio di forze che è difficile dipanare. Ci sono interessi territoriali, guerre di religione, fondamentalismo islamico, ma anche fondamentalismo ebraico e, non ultima, una guerra persistente fra occidente ed oriente. Lungi da me semplificare dinamiche molto complesse, ma senza dubbio siamo tutti complici – israeliani e palestinesi – della situazione che si è creata.
In Israele molti sono indifferenti alla sofferenza degli abitanti di Gaza e si infuriano al solo nominarla. “Se la sono voluta loro! È colpa loro, ci vogliono distruggere!” Come se tutti a Gaza, inclusi donne e bambini, fossero colpevoli e dovessero pagare per ciò che ha fatto Hamas. I giornali israeliani danno poco spazio a ciò che succede a Gaza e alla sofferenza della popolazione causata non solo da noi, ma anche dal regime di Hamas. Dinamiche analoghe succedono dalla parte palestinese. Nelle comunicazioni dei palestinesi il pogrom del 7 ottobre è stato dimenticato, cancellato, così come sono state dimenticate le atrocità di Hamas. Non si tratta di simmetria, ma di reciprocità.
Nell’epistolario fra Einstein e Freud (1932), Einstein ha affermato che l’uomo ha dentro di sé il piacere di odiare e di distruggere e ha chiesto a Freud: “Perché la guerra?”. Freud ha risposto che i conflitti sono insiti nella natura umana, che non si può abolire completamente l’aggressività ma si può cercare di deviarla al punto che non debba trovare espressione nella guerra.
Oltre alla potenza dell’empatia e alla necessità del riconoscimento dell’altro, considero importante indicare un altro canale di possibile apertura.
L’ebraismo ortodosso, dopo la nascita dello Stato ebraico e dell’insediamento nella terra promessa, è diventato molto rigido, intransigente e “arruolato” ai vari governi più o meno nazionalistici. La sua portata spirituale si è molto affievolita. Poche sono state le voci – come quella di Yeshayahu Leibowitz – che hanno protestato contro l’annessione dei territori occupati e ci hanno messo in guardia che l’occupazione sarebbe stata causa di corruzione ed una bomba ad orologeria. Non è stato ascoltato. Si è verificato esattamente ciò che lui aveva previsto.
L ‘ebraismo ortodosso ha escluso, cancellato e messo da parte l’ebraismo umanistico, di cui Martin Buber è stato uno degli esponenti, ed oggi molti sono i religiosi che appoggiano la guerra. Per questo è di particolare rilievo l’organizzazione “Rabbini per i diritti umani” che aiuta i palestinesi a difendere i loro ulivi e le loro terre dalla violenza dei coloni. Figure di profonda umanità come Rav Jonathan Sacks z”l, Emmanuel Levinas, Rav Daniel Epstein e Rav Beni Lau sono tuttora mosche bianche. Di contro – ulteriore espressione di spaccatura – molti sono i laici che rifiutano l’ebraismo, spesso senza conoscerlo.
Nella tradizione ebraica molte sono le espressioni dell’ebraismo umanistico, che a mio parere vanno rivalutate. Per esempio:
C’è scritto che ….D-o …. fa giustizia dell’orfano e della vedova e che ama lo straniero dando loro cibo e vestiti. Amerete lo straniero perché anche voi foste stranieri in terra d’Egitto (Deut. 10:18-20).
Nell’ultimo giorno di Pesach non si dice completamente la preghiera dell’Hallel (preghiera che si recita in alcuni giorni di festa) con la motivazione: “Come si fa a gioire quando sono morti molti nemici egiziani?”
E ancora: il Talmud, che è una delle opere monumentali dell’ebraismo e del pensiero occidentale, espone il pensiero attraverso dilemmi ed ogni dibattito mette a confronto diverse possibilità di interpretazione. La scrittura del Talmud è stata una vera e propria rivoluzione ed ha senz’altro contribuito a porre le basi di quello che sarà in seguito la formulazione della soggettività. Molti, oggi in Israele, non si pongono dilemmi. Lo Stato d’Israele ha cancellato la figura mitica dell’ebreo che si pone domande e non ha risposte. Un tale, una volta, al quale avevo posto una domanda, mi ha detto: “Perché tutte queste domande? Gli ebrei non si pongono domande. I goyim si fanno domande! Gli ebrei fanno tutto quello che dice il Rav e va bene così!” Esattamente il contrario dell’ebraismo umanistico! Se potessimo rivalutare la possibilità di pensare attraverso dilemmi, senza reagire automaticamente, gran parte delle nostre reazioni sarebbe più moderata. Non c’è bisogno di cercare altrove o di negare la cultura ebraica: molte sono le espressioni di umanesimo già presenti nella tradizione ebraica ortodossa, ma le abbiamo messe da parte.
A mio parere, nel profondo dell’anima collettiva israeliana, due focolai hanno portato alla scissione che ho precedentemente descritto: la preoccupazione che lo Stato mantenga viva l’identità ebraica e la paura di essere frayer (dallo yiddish frei: fessi, ingenui). La preoccupazione per l’identità ebraica è degenerata in arroganza e violenza nei riguardi di chi non è ebreo. Il secondo focolaio – la paura di essere fessi, ingenui e di essere sottomessi – è degenerata nel suo contrario, cioè la voglia di dominare per non essere dominati. La paura di essere frayer, di origine oscura, è molto radicata e forse proviene dal trauma della Shoah (Arbeit macht frei = il lavoro rende liberi) e dalle persecuzioni trascinatesi per tanti secoli. Essa impone l’imperativo: “Mai più vittime!” Il che ci ha portato ad una occupazione che dura da più di cinquant’anni. In Israele è radicata una profonda paura della debolezza e del femminile.
Ciò che potrebbe aiutare Israele e i suoi rapporti con i paesi circostanti è, a mio parere, che ogni parte rinunci al monopolio della sofferenza e riconosca anche quella degli altri, senza permettere che fondamentalismi guerrafondai distruggano la democrazia già pericolosamente in bilico.
Ci sono organizzazioni non molto conosciute né in Israele né nel resto del mondo, ignorate dal giornalismo locale: penso che queste voci vadano ascoltate (vedi box). Sono in aumento. Ci permettono di continuare a respirare e a pensare ad una possibile convivenza. A proposito di famiglia, sarebbe bello che ci fosse una famiglia allargata, che comprenda tutte le organizzazioni che difendono i diritti umani di tutti e che non permetta che un popolo voglia sterminare un altro. Che dica “no” alle barbarie di tutte le parti e che salvaguardi la nostra umanità.
È possibile amare Israele e criticarlo. Ed è bene tenere presente che il contrario dell’amore non è la critica, ma l’indifferenza!
Speriamo che “Il grano cresca di nuovo”.
Gerusalemme, 24/9/2024
Emilia Perroni
Psicologa clinica a Gerusalemme e a Tel Aviv
Università di Tel Aviv
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