alberto manzi

Alberto Manzi maestro dei due mondi: dalla teologia della liberazione a “Non è mai troppo tardi”

di Silvia Boverini. Tratto da Me.Dia.Re

Infilare le dita nelle piaghe del mondo era vietato, quindi mi attirò subito.

Il 4 dicembre 1997 si spegne all’età di 73 anni Alberto Manzi: personaggio complesso e a modo suo rivoluzionario, docente, pedagogista, scrittore, divulgatore, cooperatore internazionale ante litteram, riconosciuto e premiato in tutto il mondo, è perlopiù ricordato presso il grande pubblico come “il maestro” della trasmissione televisiva Non è mai troppo tardi.

Nato a Roma nel 1924, vanta un curriculum formativo vasto e articolato, essendosi diplomato contemporaneamente all’Istituto Magistrale e al Nautico e, dopo la guerra, laureato in Biologia e anche in Pedagogia e Filosofia, con una specializzazione in Psicologia; in quest’ambito prosegue l’attività di ricerca.

Ottiene il suo primo incarico di insegnamento nel 1946, presso l’istituto romano di rieducazione Aristide Gabelli: poco più che ventenne, Manzi si trova a fronteggiare una classe di 94 allievi, tra i nove e i diciassette anni. Racconterà in un’intervista del 1997:

All’inizio della prima lezione mi s’avvicina un ragazzo, il boss dei detenuti e mi dice: ‘Tu ti metti lì a leggere il giornale e noi ci godiamo quattro ore di tranquillità’. E io: ‘Mi spiace ma mi pagano, qualcosa devo insegnarvi’. E lui: ‘Allora ce la giochiamo, se vinci tu insegni, se vinco io te ne stai zitto e buono’. ‘Bene, ce la giochiamo a carte?’ ‘No, a botte.’ Eravamo quasi coetanei, ma io uscivo da quattro anni di Marina. Vinsi senza fatica e salii in cattedra.

Al Gabelli, Manzi realizza un giornale mensile, “La tradotta”, il primo nel suo genere in un riformatorio, e dalla collaborazione con i giovani detenuti nasce la storia da cui nel 1950 deriverà il suo primo romanzo, “Grogh, storia di un castoro”, insignito del premio Collodi (tra i giurati Silone, Alvaro, Zavattini) dal Movimento di collaborazione civica, che si prefiggeva di educare i cittadini dell’Italia appena uscita dalla guerra ai costumi della democrazia. Pochi anni dopo, pubblica  Orzowei, il suo libro di maggior successo, premio Andersen nel 1956 e tradotto in 32 lingue.

Nel 1954 lascia l’Università e prende servizio come insegnante elementare presso la scuola Fratelli Bandiera di Roma, per effettuare direttamente ricerche di psicologia didattica, studi che proseguirà per tutta la vita. Nello stesso anno, si reca per la prima volta in Sud America, nella zona orientale della Foresta Amazzonica, con un incarico di ricercatore scientifico per l’Università di Ginevra. Lì si interessa dei problemi dei nativi; da quel momento torna in Sud America ogni anno, per svolgere attività di scolarizzazione, esperienza che si protrae fino al 1977: prima da solo, poi con un gruppo di studenti universitari provenienti da ogni parte d’Italia, organizza un vero e proprio programma di aiuto solidale occupandosi, oltre che d’insegnamento, di problemi sociali e sanitari. Accusato dal governo peruviano di essere legato ai movimenti rivoluzionari guevaristi, per continuare nel suo programma di aiuti si appoggia al Pontificio Ateneo Salesiano, e nei viaggi successivi entra in contatto con molti sacerdoti che aderiscono alla teologia della liberazione. Da quell’esperienza nasceranno quattro romanzi.

Di fronte alla violenza dello sfruttamento dei contadini e alle inquietudini teologiche incontrate nel subcontinente latino-americano, Manzi ritrova le ragioni di un’opzione a favore della “periferia” nella costruzione della sua pedagogia. La generazione di giovani studiosi di pedagogia e maestri a cui apparteneva Alberto Manzi si metteva in contatto con quelle questioni che una società arretrata, a forte base rurale contadina, poneva sul terreno della riforma scolastica ed educativa: il problema di come insegnare ai poveri.

Nei primi anni Cinquanta, tale complesso di questioni ricompare nella sensibilità che Manzi riserva ai problemi della scolarizzazione delle classi popolari, la perifericità del mondo rurale, la sua irraggiungibilità. Le scuole dei contadini, abbandonate nelle loro strutture materiali e nella qualità degli insegnanti loro destinate, mancavano al loro obiettivo minimo, insegnare a leggere e scrivere.

“Non è mai troppo tardi” nasce nel quadro di un impegno all’epoca molto forte della televisione di Stato sul terreno dell’alfabetizzazione delle classi popolari e più in generale della divulgazione culturale. La trasmissione fa parte dei programmi di Telescuola, i cui corsi erano iniziati nel 1958 con il sostegno del ministero della Pubblica istruzione e con l’obiettivo di consentire ai ragazzi che risiedevano in zone dove non era arrivata l’istruzione post elementare di portare a compimento il ciclo dell’obbligo.

La struttura del progetto prevede che la messa in onda sia accompagnata e sostenuta sul territorio nazionale dalla costituzione di oltre duemila punti di ascolto televisivo: un insegnante segue la trasmissione insieme al pubblico di allievi e poi svolge con loro l’attività didattica di consolidamento. A supporto delle lezioni televisive, la casa editrice della RAI (ERI) pubblica materiale ausiliario, quaderni e brevi libri di testo.

La trasmissione va in onda durante il tardo pomeriggio; Manzi utilizza un grosso blocco di carta montato su cavalletto sul quale scrive a carboncino lettere e parole semplici, accompagnate da un simbolico disegno di riferimento dalla grafica accattivante: questa modalità didattica innovativa per l’epoca e l’attitudine a improvvisare, tratti distintivi del programma, si erano imposte fin dal provino preliminare, nel corso del quale il maestro aveva rifiutato e strappato il copione. Si stima che poco meno di un milione e mezzo di persone abbia conseguito la licenza elementare grazie a quelle lezioni a distanza; l’immensa classe di alunni è composta da persone adulte, con un grado di analfabetismo totale o molto grave. La pedagogia antiformalistica di Manzi, quel suo muovere da casi concreti, è profondamente radicata nella tradizione scolastica risalente a Platone e Aristotele, nell’idea che l’allievo non entra in classe con la testa vuota, pronta per essere riempita dal maestro, che insegnare significa al tempo stesso trasmissione di contenuti e confutazione di false credenze e che l’insegnamento è sempre commisurato alla capacità di colui che lo riceve: principi alla base della fondazione della scuola in senso moderno, in quanto cioè scuola per tutti.

I rapporti con la RAI non sono idilliaci, per l’insofferenza di Manzi ai tentativi di controllo e alla burocrazia; tra l’altro, il maestro non è mai stato retribuito per la trasmissione, salvo duemila lire a puntata per il “rimborso camicia”, dato che gli indumenti si rovinavano a causa del gessetto nero usato per i disegni.

Comunque, “Non è mai troppo tardi” viene trasmessa ininterrottamente dal 1960 al ‘68, suscitando l’interesse internazionale: pluripremiata in Italia, i diritti televisivi venduti in tutta Europa, ottiene nel ’60 il premio dell’UNESCO; nel 1987, su invito del governo argentino e per conto dell’UNESCO, Manzi tiene un corso a Buenos Aires sull’utilizzo di radio e televisione per l’alfabetizzazione, l’aggiornamento dei docenti, l’educazione permanente; per aver applicato le metodologie suggerite, la Repubblica Argentina riceverà il riconoscimento dell’ONU e un premio internazionale per la migliore soluzione adottata per l’alfabetizzazione in tutto il Sud America.

Si torna a parlare del maestro Manzi nel 1981, quando rifiuta di redigere le “schede di valutazione”, che la riforma della scuola aveva appena introdotto al posto della pagella:

Non posso bollare un ragazzo con un giudizio, perché il ragazzo cambia, è in movimento; se il prossimo anno uno legge il giudizio che ho dato quest’anno, l’abbiamo bollato per i prossimi anni.

Tale rifiuto gli costa la sospensione dall’insegnamento e dello stipendio; l’anno seguente, di fronte alle pressioni del Ministero della Pubblica Istruzione, Manzi fa intendere di non avere cambiato opinione, mostrandosi al tempo stesso disponibile a redigere una valutazione riepilogativa, ma il giudizio è uguale per tutti e apposto tramite un timbro: “Fa quel che può, quel che non può non fa”. Alle rimostranze del Ministero per la valutazione timbrata  Manzi ribatte: “Non c’è problema, posso scriverlo anche a penna”.

Il clima che si respira nelle sue classi è ben rappresentato nelle parole di una sua ex alunna:

Si rideva tutti insieme di tutti e non qualcuno di qualcun’altro. Il bullismo lo subivamo noi dalle altre classi perché eravamo considerati quelli strani. Noi? Strani rispetto a cosa? Al fatto che non sapevamo dove fosse Bologna, o quante province avesse il Lazio? Ma sapevamo com’era fatto un vulcano perché eravamo andati a vederlo o cos’era un campo di concentramento perché ci eravamo entrati. A noi interessava questo, conoscere la vita , non sentircela raccontare. Nessuno di noi è diventato chissà chi, ma ho ognuno di noi è diventato speciale per se stesso, per gli altri e per il Maestro.

Nel 1992 la RAI ripropone Manzi ne L’italiano per gli extracomunitari, 60 puntate televisive; nel 1993 ha fatto parte della Commissione per la legge quadro in difesa dei minori; nel 1994 è eletto sindaco di Pitigliano (Grosseto), dove risiede fino alla morte.

Lo ricordiamo oggi con le sue stesse parole:

In fondo scrivo perché sono un rivoluzionario, inteso nel senso profondo della parola. Per cambiare, per migliorare, per vivere pensando sempre che l’altro sono io e agendo di conseguenza, occorre essere continuamente in lotta, continuamente in rivolta contro le abitudini che generano la passività, la stupidità, l’egoismo. La rivoluzione è una perpetua sfida alle incrostazioni dell’abitudine, all’insolenza dell’autorità incontestata, alla compiacente idolizzazione di sé e dei miti imposti dai mezzi di informazione. Per questo la rivoluzione deve essere un evento normale, un continuo rinnovamento, un continuo riflettere e fare, discutere e fare.

No Comments

Sorry, the comment form is closed at this time.