13 Dic La laicità secondo Calamandrei
Tratto da valtervannelli.it
Note di un protagonista laico sulla discussione tenuta in sede di Assemblea costituente in merito al Concordato, e sul voto con il quale nel 1947 cattolici e comunisti, a grande maggioranza, approvano l’art. 7 della Costituzione
Per capire quali sono stati i veri motivi che hanno portato all’approvazione a grande maggioranza, coll’appoggio dei comunisti, dell’art. 7 della costituzione (o anche, più modestamente, per capire quanto sia difficile arrivare a capire dal di fuori questi veri motivi) non bisogna cercare la spiegazione nella teatrale parata oratoria che nelle sedute plenarie dell’assemblea costituente, dal 4 al 25 marzo 1947, ha preceduto quel voto; ma bisogna risalire alle discussioni preparatorie, appartate e spoglie di pubblicità e di solennità (più che discussioni, conversazioni e contrattazioni intercorse, “de plano et sine strepitu”, tra brava gente seduta allo stesso tavolino), che hanno preso le mosse dalla prima sottocommissione (sedute del 21 novembre e 18 dicembre 1946), sono passate attraverso la commissione dei Settantacinque (seduta del 23 gennaio 1947) e solo alla fine sono sboccate, per il solenne collaudo, all’assemblea plenaria.
E’ noto, infatti, che gli articoli del progetto di costituzione sottoposto all’approvazione della costituente non sono usciti tutti in un colpo da un’unica ispirazione e da un proposito concorde; ma sono stati faticosamente aggiustati ad uno ad uno per graduali approssimazioni, attraverso una serie di contrasti, di adattamenti e di ritocchi, fino a trovare il punto di incontro e di equilibrio tra esigenze e ideologie divergenti e spesso antitetiche.
La discussione dalla quale è nata, nella prima sottocommissione, la formula dell’art. 5 (che è poi passata quasi immutata nell’art. 7 della costituzione) porta nei resoconti parlamentari questo titolo piuttosto scolorito e scolastico: “Discussione sullo Stato come ordinamento giuridico, e i suoi rapporti con gli altri ordinamenti”. Ma in realtà il “punctum pruriens” che si nascondeva dietro questa intitolazione anodina era quello delle relazioni tra Stato e Chiesa; e proprio in vista di questa questione scottante la democrazia cristiana aveva abilmente concentrato in questa prima sotto – commissione, composta in tutto di diciotto deputati, i suoi rappresentanti più qualificati per destrezza parlamentare, come il presidente della stessa sotto-commissione avvocato Tupini, o per dottrina giuridica e fervore religioso, come i professori Dossetti, La Pira, Moro e Caristia, e gli avvocati Corsanego e Merlin.
Di fronte a questa compatta pattuglia democristiana (sette su diciotto, col vantaggio del presidente) i comunisti erano soltanto tre: Marchesi, Togliatti e la deputatessa Iotti; buoni ma pochi. Gli altri otto appartenevano a tutti gli altri partiti messi insieme: i socialisti Amadei, Basso e Mancini; il repubblicano De Vita; il demolaburista Cevolotto; i liberali Grassi e Lucifero; il qualunquista Mastroianni.
E’ facile intendere come in questo frazionamento di tendenze eterogenee, il gruppo cattolico, col suo fervente zelo e la sua raffinata abilità manovriera, fosse riuscito a ottenere fino dalla partenza un netto vantaggio sul gruppo che si può chiamare, per intenderci, «laicista» il quale, non potendo contare sui due liberali e sul qualunquista (che, sommandosi coi democristiani, bastavano a formar la maggioranza: dieci su diciotto), si riduceva, anche se i comunisti avessero fatto blocco con esso, a otto su diciotto. In realtà i tre comunisti, fino dall’inizio dei lavori della sottocommissione, fecero parte a sé: e nel contrasto tra le due tendenze, quella confessionale, di cui fu relatore il deputato Dossetti, e quella laicista, di cui fu relatore il deputato Cevolotto, assunsero, specialmente per bocca di Togliatti, una posizione, si direbbe, di centro.
L’intransigenza dei cattolici
La discussione, fin da principio, mise in luce la rigida intransigenza dei cattolici e la moderazione, talora confinante colla remissività, dei loro oppositori.
Le richieste dei cattolici si concentrarono su due punti: primo, che la costituzione riconoscesse esplicitamente la sovranità della Chiesa e il carattere “originario” (cioè non derivato e non dipendente dallo Stato) del suo ordinamento: secondo, che nella costituzione fosse espressamente confermato che le relazioni tra lo Stato e la Chiesa cattolica avrebbero continuato ad essere regolate dai Patti Lateranensi, i quali sarebbero venuti così ad acquistare in questo modo carattere di vere e proprie norme costituzionali, incluse per riferimento nella costituzione della repubblica. Intorno a questi due punti si aggirarono le discussioni dinanzi alle commissioni.
Sul primo punto la reazione dei laicisti fu assai debole: e il dissenso fu più di forma che di sostanza. In fondo i laicisti non si opponevano a che nella costituzione fosse inclusa una norma che riconoscesse la autonomia della Chiesa nel campo spirituale e la originarietà del suo ordinamento; solo chiedevano che, per non dare l’impressione di una invasione nel potere politico riservato allo Stato, si parlasse di «indipendenza» e non di «sovranità» della Chiesa, e che questa indipendenza fosse riconosciuta con una formula che non stonasse con lo stile della costituzione, la quale deve contenere statuizioni unilaterali dello Stato sovrano e non accordi bilaterali tra potenze. A tali requisiti rispondeva l’emendamento proposto in subordine dal deputato Cevolotto, in questi termini: «”Lo Stato riconosce la indipendenza della Chiesa cattolica nei suoi ordinamenti interni”».
Ma anche in questa questione di forma i cattolici ebbero facilmente il sopravvento. Nella seduta del 18 dicembre 1946 fu approvata, con dodici voti favorevoli e tre contrari, la formula concordata tra i cattolici (Tupini e Dossetti) e i comunisti (Togliatti), che è poi rimasta nella costituzione: «”Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani”».
Nelle discussioni che si sono poi svolte dinanzi all’assemblea plenaria, questa formula è stata energicamente attaccata da oratori delle disparate tendenze (a cominciare da Croce e da Orlando), non soltanto perché questo riconoscimento bilaterale e reciproco, se sarebbe al suo posto in un trattato internazionale stipulato tra due potenze contraenti poste sullo stesso piano, è una stonatura in una costituzione nella quale dovrebbe parlare soltanto lo Stato, la cui sovranità è implicita e non dipendente da riconoscimenti esterni (la costituzione, fu detto da un oratore, dev’essere un monologo e non un dialogo: e questa frase fu ripetuta e fatta sua da Croce); ma anche perché si osservò che se veramente, secondo la tesi del prof. Dossetti, tanto lo Stato quanto la Chiesa si debbono ritenere come ordinamenti giuridici “originari”, il riconoscimento reciproco nulla può aggiungere alla loro sovranità che sussiste separata e indipendente in ciascuno di essi: sicché la formula proposta sarebbe apparsa altrettanto inutile e fuor di posto nella costituzione come quella che avesse proclamato, ad esempio, che «l’Italia e la Francia sono, ciascuna nel proprio ordine, sovrane». In un primo tempo dinanzi alla prima sotto-commissione anche l’on. Togliatti era stato di questa opinione, quando aveva riconosciuto che «un’affermazione di questo genere sarebbe priva di contenuto concreto, sia politico che costituzionale, perché è come se si volesse riconoscere che tutti gli Stati sono in sostanza degli Stati con parità di diritti» (seduta del 21 novembre 1946). Ma poi, quando la stessa obiezione fu sollevata da un oppositore per criticare la formula concordata dalla maggioranza (seduta della commissione plenaria del 23 gennaio 1947), fu proprio Togliatti che si alzò a confutarla con argomenti, che per la loro ortodossia meritarono il pieno plauso della «Civiltà Cattolica». E così, anche dinanzi ai Settantacinque, la formula bilaterale del riconoscimento reciproco passò facilmente con trentanove voti favorevoli (democristiani, comunisti, liberali e qualunquisti) contro cinque contrari (azionisti, un demolaburista, un liberale e un socialista) ed otto astenuti (in gran parte socialisti).
La costituzionalizzazione dei Patti Lateranensi
Più grave fu, in sede di sotto-commissione, il contrasto sull’altro punto; quello relativo alla inclusione dei Patti Lateranensi nella costituzione.
Qui apparve subito da una parte la rigida intransigenza dei cattolici e dall’altra il desiderio dei loro oppositori di trovare ad ogni costo una formula transattiva.
Di fronte ai cattolici, i quali per bocca del relatore Dossetti, proposero fin da principio la formula: «”Le relazioni tra lo Stato e la Chiesa cattolica restano regolate dagli Accordi Lateranensi”» (art. 7 della proposta Dossetti passata poi, con piccole modificazioni di forma, nel testo definitivo: «”I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi”»), gli oppositori di tutte le tendenze, compresi questa volta i comunisti, concordemente dichiaravano (sarebbe superfluo andare a ricercare nei vari oratori le espressioni concordanti di questi comuni propositi) la loro volontà di non turbare la «pace religiosa» e di non rimettere in questione la soluzione della «questione romana» raggiunta coi Patti Lateranensi, il loro proposito di continuare a regolare mediante concordati le relazioni tra Stato e Chiesa ed anche il loro impegno di non denunciare in via unilaterale i Patti Lateranensi e di non modificarli se non attraverso nuovi accordi con la Chiesa. Ma, pur essendo disposti a tutte queste concessioni di sostanza, tutti gli oppositori, compresi questa volta i comunisti, si rifiutavano di accettare una formula, la quale, venendo a dare ai Patti Lateranensi il carattere di vere e proprie norme costituzionali, avrebbero accolto nella costituzione repubblicana il principio dello Stato confessionale e della religione di Stato consacrato in quei Patti, in aperto contrasto coi principi della libertà di coscienza e della uguaglianza di tutte le religioni di fronte alla legge, proclamati in altri articoli della stessa costituzione.
Su questo punto anche i comunisti assunsero, in sede di sottocommissione, un atteggiamento meno cauto. Mentre in un primo intervento nella seduta del 21 novembre 1946 l’on. Togliatti si espresse in modo non del tutto chiaro («… Tutto considerato non sarebbe contrario ad inserire nella costituzione un articolo in cui si dica che la Chiesa Cattolica, che corrisponde alla fede religiosa della maggioranza degli italiani, regola i suoi rapporti con lo Stato per mezzo dell’esistente concordato») successivamente, in quella del 18 dicembre, si dichiarò contrario all’inserimento dei Patti Lateranensi nella costituzione ed egli stesso prese l’iniziativa di proporre, in luogo della formula sostenuta dai cattolici, una formula transattiva («”i rapporti tra Stato e Chiesa sono regolati in termini concordatari”») che evitava la esplicita menzione dei Patti Lateranensi, il rispetto dei quali avrebbe potuto però esser garantito, come egli per ulteriore condiscendenza dichiarò, da «un atto dell’assemblea, la quale, nel momento in cui voterà la costituzione, potrà votare anche un ordine del giorno in cui nella forma più solenne dichiari di ammettere che il concordato ed il trattato del Laterano sono in vigore». Nella stessa seduta il deputato comunista Marchesi dichiarò, da parte sua, che la formula proposta dal Togliatti rappresentava «il limite estremo di ogni concessione che può essere fatta in materia dai commissari di parte comunista».
Si venne così, in quella stessa seduta, alla votazione; la formula Togliatti fu respinta con dieci voti contrari e sette favorevoli, quella Tupini-Dossetti fu approvata con dieci voti favorevoli e sette contrari. La questione si ripresentò, negli stessi termini , dinanzi alla commissione dei Settantacinque (seduta del 23 gennaio 1947), dove l’opinione dei comunisti, contraria all’inserimento dei Patti Lateranensi nella costituzione, fu nuovamente confermata dallo stesso Togliatti e, più recisamente, dall’on. Terracini. Ma anche qui la formula Togliatti fu respinta con ventisette voti favorevoli (socialisti, comunisti, repubblicani, azionisti e demolaburisti) e trentadue contrari: e la formula Tupini fu viceversa approvata con trentun voti favorevoli e venti contrari.
Con questi precedenti l’art. 5 del progetto arrivò alla discussione dell’assemblea plenaria: e fu approvato, nella seduta del 25 marzo, come art. 7 della costituzione, in questa forma definitiva:
“«Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani».
«I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi. Qualsiasi modificazione dei Patti, bilateralmente accettata, non richiede procedimento di revisione costituzionale»”.
Il volta faccia dei comunisti
Ricordare in qual modo si svolse dinanzi all’assemblea costituente la discussione nelle sedute tra il 5 e il 25 marzo, sarebbe qui superfluo; attraverso la stampa quotidiana il pubblico ha potuto seguirle fino alla seduta conclusiva, nella quale, coll’intervento di quattrocentonovantanove votanti, l’art. 7 è stato approvato con trecentocinquanta voti favorevoli (democristiani, comunisti, qualunquisti, monarchici, gran parte dei liberali, tra essi Orlando, Nitti e Bonomi) contro centoquarantanove contrari (socialisti, repubblicani, azionisti, demolaburisti e alcuni liberali).
L’episodio saliente e sorprendente di quella votazione, il vero e proprio colpo di scena della giornata, è stato l’improvviso voltafaccia dei comunisti: i quali, intervenuti anche nella discussione dinanzi all’assemblea con un loro oratore, l’on. Paietta, per confermare la loro recisa opposizione alla formula cattolica, hanno dichiarato all’ultim’ora, per bocca di Togliatti, di votare a favore di essa; e in questo modo, col peso di un centinaio di voti, ne hanno assicurata la approvazione a grande maggioranza. Se i comunisti avessero votato contro, è assai dubbio se l’articolo sarebbe stato approvato; tutt’al più sarebbe passato con una maggioranza computabile sui diti di una mano; ma non si può escludere che, se tutte le sinistre si fossero trovate compatte nel votar contro, avrebbero potuto trascinar con sé qualche voto incerto e riuscire a mettere i democristiani in minoranza.
Fino all’ultimo momento l’atteggiamento dei comunisti è stato misterioso e tutti i partiti hanno atteso ansiosamente la loro decisione. Negli ultimi giorni correvano voci di trattative che avrebbero dovuto portare a una soluzione conciliativa capace di raccogliere l’unanimità dell’assemblea: si diceva che l’impegno della Repubblica di non denunciare senza nuovi accordi i Patti Lateranensi sarebbe stato consacrato in una disposizione transitoria; che i democristiani avrebbero votato la formula Togliatti, purché contemporaneamente l’assemblea esprimesse in un ordine del giorno esplicativo il proposito di rispettare i Patti Lateranensi; oppure viceversa: che i comunisti avrebbero votato la formula cattolica, purché accompagnata da un ordine del giorno, che si diceva proposto da Bonomi, Nitti e Orlando, col quale l’assemblea genuflessa avrebbe espresso il voto rispettoso che la Santa Sede fosse benevolmente disposta a modificare gli articoli dei patti Lateranensi inconciliabili coi principi della costituzione… Ma la mattina del 25 si diffuse la notizia che i democristiani avevano rifiutato ogni patteggiamento e che le trattative erano rotte.
Che avrebbero fatto i comunisti? Si iniziò la seduta pomeridiana; nessuno sapeva con precisione che cosa avessero deciso: neanche i compagni socialisti, nonostante il patto di unità d’azione, erano riusciti a saperlo. Parlò De Gasperi accentuando in tono perentorio, quasi minaccioso, le esigenze del suo partito. Infine parlò Togliatti: il suo flessuoso discorso, che durò circa un’ora, lasciò per un bel pezzo perplessi gli ascoltatori, i quali quasi sino alla fine continuarono a credere che il filo polemico contro i democristiani dovesse metter capo ad un voto coerente, cioè ad un voto contrario. Invece il discorso, con un giuoco di acrobazia dialettica così serrato da mozzare in più punti il respiro degli ascoltatori, concluse col dichiarare che i comunisti avrebbero votato a favore. La votazione per appello nominale, che si concluse dopo la mezzanotte, si svolse in un’atmosfera pesante e depressa: gravava nell’aria, per i più opposti motivi, un senso di delusione, di dispetto, di mortificazione; anche di disgusto…
Quando fu proclamato il resultato, nessuno applaudì, neanche i democristiani, che parevano fortemente contrariati da una vittoria raggiunta con quell’aiuto. Neppure i comunisti parevano allegri; e qualcuno notò che, uscendo a tarda notte da quella seduta memoranda, camminavano a fronte bassa e senza parlare (ma forse questo accadde perché a quell’ora tutti, senza distinzione di partito, cascavano dal sonno).
Il gioco delle parti
La scontrosa intransigenza dei cattolici, la subitanea capitolazione dei comunisti: quali furono i veri motivi di questi opposti atteggiamenti?
E’ largamente diffusa nel pubblico l’opinione che il voto dei comunisti sia stato il risultato di una contrattazione extraparlamentare avvenuta tra le direzioni dei due partiti: un “do ut des”, nel quale i comunisti avrebbero avuto dai democristiani, in cambio del loro voto favorevole, non so bene quali assicurazioni o vantaggi in altri campi. Un giornalista francese, la sera stessa della votazione, mi domandò se era vero che i comunisti avessero comprato con quel loro voto il silenzio del governo sulla faccenda del cosiddetto «tesoro di Dongo»… Fantasticherie. Tutto può darsi in politica; ma se debbo giudicare dalle chiare apparenze, quali nel giorno della votazione poterono esser valutate da tutti gli osservatori presenti nell’aula, ho l’impressione che la improvvisa decisione dei comunisti di votare a favore dell’art. 7 sia stata una sorpresa anche per i democristiani: e non una gradita sorpresa. Da diversi deputati cattolici, che ho ragione di ritener sinceri, mi fu assicurato che essi prima del discorso di Togliatti erano convinti che l’art. 7 sarebbe passato con pochi voti, coi soli voti dei democristiani e delle destre, e che i comunisti avrebbero votato contro: e di tale opinione rimasero fino a quando quel discorso arrivò alla inaspettata perorazione.
No, il voto favorevole dato dai comunisti alla formula confessionale proposta dai cattolici è stato un dono senza contrattazione e talmente gratuito, che i cattolici non solo non avevano fatto nulla per procurarselo, ma avevano fatto tutto quanto era in loro per liberarsene. Essi speravano di poter riuscire a portare alla vittoria il loro articolo colle sole loro schiere, colle milizie della fede, senza ricorrere ad impure alleanze contaminatrici (pensate alla umiliazione che avrebbe provato Goffredo Buglione se per liberare il Santo Sepolcro avesse dovuto farsi dare una mano da un esercito di saraceni…). In tale speranza essi avevano cercato di chiudere il varco, a cominciar dalle discussioni preparatorie, ad ogni tentativo di soluzioni intermedie. E nonostante questo, all’ultimo momento, i comunisti hanno voluto a tutti i costi regalare ai cattolici quel contributo di voti che questi avevano fatto di tutto per respingere, ed hanno ottenuto così che i cattolici non possano più sventolare di fronte agli elettori il vanto di essere riusciti a salvare la religione con le loro sole forze…
Si è pensato che in questo reciproco atteggiamento dei due partiti molto abbian giuocato considerazioni di carattere elettorale.
Togliatti nel suo discorso volle metter su questo punto le mani avanti; e dichiarò che nella decisione di votare a favore dell’art. 7 il calcolo elettorale non entrava per nulla. Ma questa frase suscitò, nell’aula, una di quelle reazioni clamorose di incredulità che nello stile dei resoconti parlamentari possono essere qualificate, secondo i casi, come «”mormorii”», o come «”rumori”» o anche come «”ilarità”».
In realtà tutta l’attività dell’assemblea costituente è stata ed è inquinata da questi struggenti patemi d’animo, collettivi ed individuali che si chiamano nel gergo politico le «preoccupazioni elettoralistiche». E’ stato detto, con una frase che ha fatto fortuna, che una costituzione per essere buona «dovrebbe essere presbite», cioè guardar lontano, verso il remoto avvenire; ma la nostra costituzione purtroppo, rischia di nascere miope, se non cieca addirittura, come le talpe. Gran parte di coloro che la preparano non vedono molto al di là del proprio naso: e la punta del naso è, per molti uomini politici, segnata dalla data delle prossime elezioni.
Ora non si può escludere che proprio questa miopia sia stata una delle cause determinanti del voto sull’art. 7. I democristiani assaporavano già quale irresistibile argomento di propaganda avrebbe potuto essere nella prossima campagna elettorale il vanto di essersi trovati soli a difendere la religione contro i nemici coalizzati di essa e specialmente contro i comunisti. Tutti ricordano con quale abilità e con quale fortuna nelle elezioni del 2 giugno i democristiani si servirono a proprio vantaggio di questo argomento: è quindi verosimile che essi abbiano adottato sull’art. 7 un atteggiamento intransigente proprio per costringere le sinistre, e specialmente i comunisti, a votar contro, e ad attirarsi così la taccia compromettente di nemici della Chiesa.
Ma i comunisti (questa potrebbe essere una spiegazione) hanno capito il gioco e l’hanno sventato: votando a favore dell’art. 7 hanno spezzato in mano dei democristiani l’arma più potente che questi stavano affilando contro di loro per la prossima lotta elettorale. Questa è stata del resto la spiegazione che un deputato comunista mi ha dato, sia pure in tono scherzoso, del loro voltafaccia:
– Abbiamo voluto evitare che nella prossima campagna elettorale i democristiani ci possano rappresentare come anticlericali…
– Ma non temete che così qualcuno possa combattervi come alleati dei clericali?
– Certo questo accadrà. Ma saranno voti che andranno ai socialisti…
Pace religiosa e pace politica
Ma potrebbe anche darsi che le vere ragioni del voto sull’art. 7 siano state più profonde: e attinenti a considerazioni più serie che non siano i calcoli contingenti di politica elettorale.
Intanto non sembra che si possa spiegare soltanto con calcoli di ordine elettorale l’intransigenza dei democristiani sulla formulazione dell’art. 7, la quale per molti di essi più che come voluta dal di dentro, può meglio spiegarsi quando si consideri come derivante da una imposizione esterna. Durante i lavori preparatori dell’art. 7 ho avuto la sensazione, parlando confidenzialmente con qualcuno dei deputati democristiani (tra i quali sono numerosi non solo i valentuomini, ma anche i repubblicani schietti), che essi si rendessero perfettamente conto dell’irriducibile contrasto che passa tra la confessionalità dello Stato, consacrata, auspice il fascismo, nei Patti Lateranensi, e il principio della Libertà di coscienza, che non può non essere uno dei caposaldi della repubblica italiana, se essa dev’essere una vera democrazia; e che nel sostenere quella formula intransigente dell’art. 7, che introduce di straforo nella costituzione repubblicana la religione di Stato, provassero un certo disagio e una certa perplessità di coscienza. Nelle dichiarazioni degli oratori democristiani, quali sono registrate nei resoconti sommari si trova ripetuto che nessuno di loro è fautore dello Stato confessionale; qualcuno si è dichiarato contrario all’idea di una religione di Stato (cfr. le dichiarazioni dell’on. Cappi nella seduta del 23 gennaio 1947); e qua e là si è affacciata la loro, sia pur cautamente, la fiducia che la Santa Sede sarà disposta domani a riprendere in esame le disposizioni dei Patti Lateranensi che sono in contrasto (anche i ciechi lo vedono) colla costituzione della Repubblica. Sarebbe bastato un passo di più per arrivare ad un accordo che avrebbe salvato la pace religiosa e insieme la sincerità democratica della costituzione. Ma questo passo i democristiani non hanno voluto farlo: non hanno voluto o “non hanno potuto”? Non posso dimenticare che, dopo un discorso nel quale un oratore di sinistra ebbe ad affermare che in Italia la pace religiosa esiste ormai, più che per merito dei Patti Lateranensi, in virtù della lotta clandestina in cui i cattolici si sono trovati uniti colle altre forze popolari a combattere per la libertà, un deputato democristiano, commosso da quella invocazione di una lotta combattuta in comune da tutta la democrazia, ebbe a dirmi queste parole:
– Forse avete ragione. Ma è la Santa Sede che si è ostinata a voler così!
L’art. 7 non sarebbe dunque nato dall’interno dell’assemblea, ma dal suggerimento irresistibile di una potenza esterna; non dalla sovranità del popolo italiano, ma da un’altra sovranità che lo stesso art. 7 riconosce e proclama come contrapposta a quella della Repubblica.
Questa fu in sostanza l’impressione che si ebbe dalla tagliente ed aspra dichiarazione di voto fatta, nella seduta del 25 marzo, dal presidente De Gasperi: il quale disse, o fece intendere, che in Italia dal mantenimento della pace “religiosa” dipende il mantenimento della pace “politica”; e che, se si vuole evitare alla Repubblica ancora debole il pericolo che deriverebbe da una rottura della pace politica, non c’è altro da fare che accettare senza discutere la formula perentoria dell’art. 7, in mancanza di che la vita stessa della Repubblica non sarebbe più garantita…
Proprio su questo piano l’on. Togliatti pose, nella stessa seduta, la sua replica: – Abbiamo capito, onorevole De Gasperi, abbiamo capito. – Il voto dei comunisti favorevole all’art. 7 poté così essere abilmente presentato, più che come un espediente di politica interna, come un sacrificio imposto dalla necessità di salvare la Repubblica dalle minacce esterne.
Non so quanto di vero e quanto di esagerato vi sia in questa alquanto drammatica interpretazione del voto sull’art. 7. Certo è che più volte, nell’imminenza di quella votazione, si è sentito dire che se l’art. 7 non fosse stato approvato nella forma voluta dai cattolici, essi, d’accordo colle destre, avrebbero chiesto e ottenuto che la costituzione fosse sottoposta a nuovo “referendum” finale e che fosse rimessa così in discussione anche la questione istituzionale; e si è sentito dire altresì che se la Repubblica italiana, nella gravissima crisi che la travaglia, vuole ancora contare sull’appoggio della finanza americana, bisogna che dia l’impressione di saper conservare quella stabilità politica che, come si è detto, non è separabile dalla pace religiosa… L’approvazione dell’art. 7 sarebbe stata insomma non solo la condizione per il mantenimento della Repubblica, ma anche il prezzo del pane che impedirà al popolo italiano di morir di fame…
L’asservimento a un’«altra» sovranità
Se in tutto questo c’è del vero, la votazione sull’art. 7 viene ad assumere un significato che eccede di gran lunga i limiti della politica interna. Dietro quel voto c’è il doloroso riconoscimento della servitù internazionale e della miseria in cui, per merito del fascismo, l’Italia è caduta.
Ma se più volte, nel corso della discussione dell’art. 7 e specialmente nel duello oratorio svoltosi l’ultimo giorno tra De Gasperi e Togliatti, è affiorata questa umiliante situazione di un’assemblea costituente che, mentre si illude di esser sovrana, deve in realtà piegarsi alle intimazioni che le giungono dall’esterno, può parere inesplicabile che in quest’assemblea non si sia udita neanche una voce di dignitosa ribellione contro questo asservimento (come avrebbe reagito, contro una siffatta imposizione, il parlamento di cinquant’anni fa?) e che proprio i comunisti non abbiano saputo far altro che consacrare col loro voto la rassegnata acquiescenza a queste ingerenze estranee ed a queste imposizioni negatrici della nostra libertà e della nostra indipendenza. E non parliamo del disagio in cui devono essersi trovati (suppongo) i deputati della democrazia cristiana: i quali, eletti anch’essi a far parte dell’assemblea costituente come rappresentanti del popolo italiano e come custodi della sua sovranità, si son trovati ad essere, nell’interno di quell’assemblea, i portavoce di una potenza esterna, i fiduciari, vincolati da mandato imperativo, di un’altra sovranità.
Per risolvere il conflitto di interessi fra due potenze sovrane e per tracciare i confini delle loro competenze la comune pratica internazionale esige che ciascuna di esse sia rappresentata nelle trattative da propri delegati, i quali abbiano da servire un solo padrone; ma qui per tracciare coll’art. 7 i limiti di competenza tra lo Stato e la Chiesa, i deputati democristiani si sono trovati ad essere contemporaneamente rappresentanti dello Stato e della Chiesa, cioè insieme di tutt’e due le potenze in conflitto. Suppongo che molti di essi abbiano sentito, nella loro coscienza di uomini probi, la singolare difficoltà di questa loro posizione ambigua: e che al momento del voto si siano trovati turbati (ma forse anche qui le cose sarebbero andate diversamente se la votazione fosse avvenuta a scrutinio segreto; com’è poi avvenuto nella seduta del 23 aprile, sull’indissolubilità del matrimonio).
Ma, insomma, in questa battaglia sull’art. 7, chi è stato il vero vincitore?
Apparentemente il voto ha dato la vittoria ai cattolici; ma avranno essi in avvenire la forza politica per sfruttarla? Se essi avessero voluto veramente assicurare per sempre all’Italia la pace religiosa, avrebbero dovuto ad ogni costo evitare che le discussioni della Costituente fossero turbate dall’ombra dello Stato confessionale; si sono messi invece a evocare con tutto il loro zelo questo fantasma. Hanno vinto coi voti, ma hanno introdotto nella costituzione una incompatibilità insanabile, che non potrà non portare a scontri, tra il principio della religione di Stato e il principio della libertà di coscienza. Esser riusciti, com’essi hanno fatto coll’art. 7, a dar nuova ragione di vita all’anticlericalismo, non si può dire che sia per loro un grande trionfo (ammenoché un certo pizzico di anticlericalismo non sia da essi desiderato come condimento per render più appetibile la loro cucina elettorale).
D’altra parte, a guardar le apparenze, ai comunisti è toccato peggio che la sconfitta: addirittura la resa a discrezione. Ma poi è facile capire che sotto le apparenze c’è un’altra realtà: per loro quel che conta è rimanere al governo, non provocare brusche fratture, lasciare aperte le strade verso le mete sociali. Per ottenere questo son pronti ad ogni transazione nel campo dei «principii»: le «questioni di principio» sono, per loro, vecchi pregiudizi borghesi; è ingenuità da giuristi prendere molto sul serio l’approvazione di un articolo, del quale, anche dopo averlo approvato, è sempre possibile rifiutare in sede politica le conseguenze (e l’hanno già dimostrato col votare contro l’art. 24, che, secondo i cattolici, era una conseguenza dell’art. 7).
Il realismo degli «ultimi mohicani»
Difficile dunque dire quale parte sia stata vittoriosa. Ma forse la vera sconfitta è stata, insieme colla sovranità italiana, la democrazia parlamentare.
Alla base della democrazia e del sistema parlamentare sta un principio di lealtà e di buona fede: le discussioni devono servire a difendere le proprie opinioni e a farle prevalere con argomenti scoperti, e i voti devono essere espressione di convinzioni maturate attraverso i pubblici dibattiti. Quando i voti si danno non più per fedeltà alle proprie opinioni, ma per calcoli di corridoio in contrasto colla propria coscienza, il sistema parlamentare degenera in parlamentarismo e la democrazia è in pericolo.
Proprio per questo il voto sull’art. 7 lasciò alla fine, in tutti i sinceri amici della democrazia, un senso di disagio e di mortificazione. L’on. Togliatti, in un articolo dedicato al partito di azione (sull’«Unità» del 2 aprile), ha espresso l’opinione che la fondamentale debolezza di questi «ultimi mohicani» consista nella mancanza del «senso delle cose reali, che dovrebbe invece essere ed è la qualità prima di chi vuole impostare e dirigere un’azione politica». Ma quali sono le «cose reali?». Qualcuno pensa che anche certe forze sentimentali e morali, che hanno sempre diretto e sempre dirigeranno gli atti degli uomini migliori, come potrebb’essere la lealtà, la fedeltà a certi principi, la coerenza, il rispetto della parola data e così via, siano «cose reali» di cui il politico deve tener conto se non vuole, a lunga scadenza, ingannarsi nei suoi calcoli.
Potrebbe darsi che i comunisti, quando hanno compiuto con estremo virtuosismo quell’abilissimo esercizio di acrobazia parlamentare che è stato il voto sull’art. 7, non abbiano calcolato abbastanza l’impressione di disorientamento e di delusione ch’esso avrebbe prodotto sulla coscienza del popolo ingenuo, che continua a credere nella democrazia. E non abbiano pensato che anche la delusione e il disgusto sono stati d’animo idonei a produrre nel mondo certe conseguenze pratiche, dei quali il politico, se non vuole andare incontro ad acerbi disinganni, deve tener conto come di «cose reali».
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