minuto di rumore

La scuola e quella quiete diventata intollerabile

Di Nicoletta Verna. Tratto da La Stampa 12/11/2024

Il minuto di silenzio nasce nel 1919, quando il giornalista Edward George Honey lo propone per commemorare il primo anniversario dell’armistizio della Grande Guerra. «Una intercessione sacra» suggerisce. «Comunione con i Morti Gloriosi che conquistarono per noi la pace. Ovunque la vita pulsi, la vita venga sospesa». Un rito, dunque, che vede nella momentanea interruzione della normale esistenza la possibilità di entrare in comunione con i morti. E i morti non parlano. Dunque è il silenzio il modo migliore per raggiungerli.

Quando Elena Cecchettin chiede per sua sorella Giulia rumore, non silenzio, sta esattamente ribaltando questo concetto. Lei non vuole che si parli ai morti, bensì ai vivi. I morti non possono fare più nulla, se non servirci da esempio: tocca ai vivi fare il resto. Rovesciare le cose. 

E, perché avvenga, il silenzio è nemico, non complice. Il silenzio è concetto polisemico. Può essere magnifico simbolo di pace e rispetto, ma anche mezzo di immane violenza. È questa accezione che Elena Cecchettin indica: quel tipo di silenzio che è assenza. Assenza di rumore ovvero di voce, di volontà, di impegno.

È il silenzio di chi sa e vede, ma tace. O sottovaluta, che è la stessa cosa. L’omertà nella sua etimologia più terribile: (u)omo, sul modello dello spagnolo hombredad. Omertà come “virtù propria dell’uomo”: una specie di coraggio che distingue gli omertosi dagli infami. Né vittime né carnefici: la zona grigia che racconta Primo Levi ne “I sommersi e i salvati”. È, ancora, il silenzio della coercizione, della sottomissione. Scrive Margaret Atwood nel “Racconto dell’ancella”: «A colazione era il momento delle Beatitudini. Beato questo, beato quest’altro. Erano incise su un disco, la voce era di un uomo. Beati i poveri di spirito, perché loro sarà il regno dei cieli. Beati i misericordiosi. Beati i mansueti. Beati i silenziosi. Sapevo che questo se l’erano inventato, che era sbagliato».

È, per tornare al particolare, il silenzio estremo, definitivo di Giulia Cecchettin, a cui Turetta ha messo lo scotch sulla bocca nelle ultime ore di vita. Uno svuotamento della volontà, di qualunque umanità. Togliere la voce: l’annichilimento più feroce della persona.

Il minuto di rumore che Elena Cecchettin chiede per Giulia, allora, sovverte tutto questo: non è caos, ma partecipazione. È (indubbiamente) disturbo della quiete pubblica, perché quella quiete, quel silenzio noi non lo possiamo più tollerare.

Il preside del liceo che ha vietato il rumore invitando al silenzio, alla riflessione e al ricordo privato mostra di ignorare l’elemento più gigantesco di questa vicenda: il femminicidio di Giulia Cecchettin è diventato un immenso simbolo collettivo, come da anni non avveniva in Italia. Al pari di Rosa Parks o di Giovanni Falcone, Giulia rappresenta la presa di coscienza di un sistema aberrante e la necessità di “bruciare tutto”. E di farlo insieme.

Rappresenta l’evidenza che l’epoca del silenzio, forse, ha esaurito il suo corso.

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