14 Giu Giacomo Matteotti: contro il fascismo, per la pace e per il socialismo
Tratto da Volerelaluna, di Giuseppe Battarino.
La morte di Giacomo Matteotti per mano fascista, il 10 giugno 1924, quale che ne sia la minuta ricostruzione storica e giudiziaria tra moventi, esecuzione e conseguenze, può dirsi l’esito della profonda avversione di Mussolini nei suoi confronti, in quanto visto come il più efficace oppositore del governo fascista; e, insieme, il culmine di tutte le precedenti, ripetute, persecuzioni ai suoi danni.
Le iniziative per il centenario, nel 2024, si stanno rivelando un’occasione di superamento della sola celebrazione come vittima, a favore dell’approfondimento del complesso ruolo politico e culturale di Matteotti: che contribuì alla prima opposizione contro la deriva autoritaria, che accompagnò la lotta al fascismo e la Resistenza (a partire dalla clandestina detenzione di sue immagini, punita con la reclusione o il confino, fino alla costituzione delle numerose Brigate Matteotti) e che si può dire abbia proiettato i suoi effetti sino alla costruzione della Costituzione della Repubblica; e ancora dovrà essere studiato per elaborarne argomenti a difesa della democrazia parlamentare. Questi ultimi passaggi possono a loro volta essere esplicitati non soltanto attraverso le consistenti tracce costituzionali della cultura socialista ma anche con la formulazione di un’ipotesi, consentita dalla ricchezza degli scritti politici e giuridici e degli interventi parlamentari di Giacomo Matteotti: grande e profondo sarebbe stato l’apporto del deputato socialista – se gli assassini fascisti non lo avessero strappato alla vita e alla vita politica – ai lavori dell’Assemblea Costituente. Lì si sarebbe incontrato con altri oppositori al regime: tra i quali Sandro Pertini, che nel 1970, da Presidente della Camera dei deputati, carica rivestita prima di quella di Presidente della Repubblica, promosse la pubblicazione della raccolta di tutti gli interventi parlamentari di Matteotti. Lì avrebbe messo a frutto gli studi di diritto penale e processuale penale, l’approfondimento dei temi di amministrazione pubblica e diritto tributario, da giurista in politica, procedendo con la sua straordinaria capacità di studio. Meuccio Ruini, presidente della Commissione dei 75 nell’Assemblea Costituente, commemorando Giacomo Matteotti lo chiamò “il documentatore”: descritto dai compagni di partito e da altri parlamentari mentre passava ore a studiare nella biblioteca della Camera “badando sempre a restare fondato sulle cose” e sapendo che illudere i cittadini con informazioni false o non documentate vuol dire tradirli.
La rilettura in prospettiva costituzionale degli scritti e degli interventi parlamentari di Giacomo Matteotti ci porta a individuare, sinteticamente, alcuni temi o addirittura alcune norme che recano una sua impronta postuma.
È affascinante richiamare l’articolo del 21 settembre 1901 pubblicato su La Lotta in cui il sedicenne neo iscritto al Partito socialista scrive, con disarmante chiarezza: «Sono i nostri padroni che non vogliono che ci occupiamo di politica, perché hanno tutto l’interesse a mantenerci nell’ignoranza». È la prefigurazione del grande tema della partecipazione dei cittadini alla vita politica attraverso l’organizzazione dei partiti. È la scelta compiuta con l’articolo 49 della Carta, di costituzionalizzare i partiti politici, per garantire una forma essenziale di esercizio della sovranità popolare (una delle “forme” cui si riferisce l’articolo 1) e che, per Matteotti, era stata anche l’attenzione ai segnali, nel suo tempo, di rifiuto della politica, e la riprovazione dei “falsi apolitici” contro cui egli si scagliava già nel 1919 in un manifesto della Federazione provinciale socialista di Rovigo.
Il successo nelle elezioni politiche del 1919 dei partiti di massa, Socialista e Popolare, si contrappone alle prime manifestazioni parlamentari ed extraparlamentari del nascente fascismo ma non riesce a esprimere una guida politica: e consentirà in seguito a Mussolini di proclamare che la democrazia parlamentare aveva “esaurito il suo compito”, preparando la presa del potere con la forza, suggellata, per così dire, dal discorso sul Parlamento “bivacco di manipoli”, pronto a essere chiuso e sprangato, del 16 novembre 1922. Una contrapposizione tra dialettica politica e parlamentare e “decisionismo” sulla quale la Costituzione ha preso posizione chiara quanto lo fu quella del deputato Matteotti e che fornisce motivi di riflessione e azione politica del tutto contemporanei.
Così come lo sono quelli che derivano alla posizione internazionalista e pacifista, che portano Giacomo Matteotti a un’opposizione netta all’intervento nel primo conflitto mondiale ma anche a maturare una visione straordinariamente avanzata e vicina a quella che sarà la redazione degli articoli 10 e 11 della Costituzione: ricordando, in questo senso, non solo la sua opera pacifista ma anche gli interventi in cui nel 1923, contro il nazionalismo ottuso (quello che oggi chiamiamo, forse impropriamente, forse benevolmente, “sovranismo”) che allora dominava la scena, dichiara che «i veri interessi di ciascuna nazione coincidono con l’interesse internazionale» e che «l’Italia ha tutto e soltanto da aspettare dalla ricostruzione e dalla pace europea». Fino ad affermare, nelle “Direttive del Partito Socialista Unitario Italiano”, che per sconfiggere il nazionalismo e le guerre la soluzione avrebbe dovuto essere «il formarsi di una vera Lega delle Nazioni e, più immediatamente, degli Stati Uniti d’Europa, che si sostituiscano alla frammentazione nazionalista in infiniti piccoli Stati turbolenti e rivali». Un attivismo internazionalistico praticato in concreto, anche grazie alla sua conoscenza delle lingue: tale da infastidire molto il governo fascista, che nel maggio 1923, attraverso ossequienti organi di polizia, gli negherà il passaporto.
Lo sguardo di Matteotti si proietta in ampiezza, nello spazio e nel tempo: ma la sua costruzione politica è dal basso, dalle comunità locali, a cui dedica gran parte delle sue energie nella prima fase dell’attività politica nel Partito socialista. Sostenuto dalla formazione giuridica ma antidogmatico e ancorato a dati e fatti concreti, gli è chiara la necessità di approfondire i temi della disciplina dell’amministrazione pubblica e del diritto tributario: cosa che fa sia per sostenere – documentatamente – le puntuali battaglie politiche che lo vedono protagonista, sia per diventare un efficace divulgatore delle nozioni essenziali e indispensabili ai militanti socialisti che entrano a migliaia nelle amministrazioni locali nel primo dopoguerra. La sua attività negli enti locali lo colloca all’avanguardia nella costruzione di quel “socialismo municipale” che prefigura il valore di promozione delle autonomie locali che la Costituzione colloca tra i principi fondamentali, nell’articolo 5.
L’impegno di Giacomo Matteotti nel Polesine produce la conquista da parte del Partito socialista di tutti i 63 comuni della provincia di Rovigo nelle elezioni amministrative del 1920. Ma alla legale affermazione elettorale risponde la violenza degli appena costituiti “fasci di combattimento”, approvati e sostenuti dal padronato: sequestri di persona, omicidi, minacce e violenze nei confronti di militanti e amministratori socialisti (saranno dieci i morti e sessantacinque i feriti gravi nel Polesine nel solo 1921), incendi di case, di sedi di partito e di leghe, irruzioni nei municipi. Progressivamente tutti i sindaci democraticamente eletti sono costretti alle dimissioni. Il fascismo non è mai stato un “qualsiasi” fenomeno politico incorso in errori, bensì uno strutturale esercizio di violenza e prevaricazione, fino all’omicidio, come strumenti di conquista e mantenimento del potere.
In quella fase l’impegno di Matteotti prosegue in Parlamento e il suo interesse per le politiche tributarie e finanziarie passa dall’ambito locale a quello nazionale. Non casualmente il 18 novembre 1922 il suo primo intervento parlamentare dopo l’investitura di Mussolini a capo del governo è spietatamente ricco di osservazioni tecniche sulla richiesta fascista di esercizio provvisorio di bilancio; e non casualmente il 25 novembre 1923, dopo un anno di fascistizzazione progressiva delle istituzioni, si opporrà in aula al progetto governativo di “pieni poteri” in materia tributaria. Le ondivaghe scelte del governo fascista erano un insieme di “effetti-annuncio”, si direbbe oggi: lo scrive Matteotti in una pagina che, per l’appunto, sembra di oggi, su La Giustizia il 9 gennaio 1924: «Prima che un provvedimento sia deciso nessuno ne sa niente, è esclusa ogni pubblica discussione […] Dopo la decisione i giornali e gli interessati sono costretti a discutere non su un provvedimento preciso e regolarmente emanato, ma sul comunicato apologetico e incompleto che di quel provvedimento vorrà dare l’ufficio stampa fascista». Ben chiara era invece la sua impostazione, che vedeva nella leva fiscale progressiva e nella disciplina delle successioni strumenti di redistribuzione del reddito: temi di cui la Costituzione si occupa negli articoli 53 e 42, quarto comma.
Durante la prima guerra mondiale Matteotti viene richiamato alle armi: ma essendo noto per la sua militanza socialista e il suo pacifismo, le gerarchie militari lo allontanano dal contatto con le truppe confinandolo a Messina. Dall’“abbrutimento della solitudine” si riscatta chiedendo alla moglie Velia di inviargli materiali per i suoi studi giuridici; con cui riprende le riflessioni che lo avevano portato a sviluppare il tema penalistico della recidiva e soprattutto si dedica alla procedura penale, rivendicandone, da innovatore, l’autonomia scientifica. Quasi profeticamente rispetto al nostro tempo di confusione mediatica, esige il rigoroso rispetto delle sentenze passate in giudicato; altra anticipazione, rilevante nella contemporaneità del processo, è la “scoperta” del procedimento di esecuzione penale: gli effetti delle sentenze penali vanno curati da una magistratura “fornita di speciali cognizioni, capacità e facoltà”. Quanto poi alla posizione del pubblico ministero, Giacomo Matteotti anticipa non solo i lavori della Costituente ma la stessa modifica costituzionale del 1999 sul “giusto processo”: la sua modernità sta nel riconoscere al pubblico ministero (vigente il Codice di procedura del 1913) il ruolo di parte processuale ma a condizione che risultino «sufficienti quelle garanzie di indipendenza di cui sono circondati gli organi di giustizia». Ben lontano, dunque, da talune sguaiate, atecniche e vendicative prese di posizione politiche contemporanee. Nella corrispondenza con la moglie Velia manifesterà poi l’ambizione di produrre una riflessione sulla Corte di Cassazione che in realtà sarebbe stata la strada per affermare i valori di unità e razionalità del sistema penale, di uniformità delle decisioni giudiziarie e di certezza del diritto. Dunque possiamo immaginare un Matteotti sopravvissuto alle persecuzioni fasciste che in Assemblea Costituente si occupa, insieme a Piero Calamandrei, delle norme sulla magistratura.
Ma il suo pensiero politico ce lo fa collocare in un altro elevato luogo costituzionale: prendendo a prestito le parole di Francesco Guccini a proposito di un eroe giovane e bello, “a noi piace pensarlo” insieme a Lelio Basso e Teresa Mattei a scrivere il secondo comma dell’articolo 3 della Costituzione, ad affermare il principio di eguaglianza sostanziale tra i cittadini, maturato nella sua adesione al socialismo di fronte alle terribili condizioni sociali del suo Polesine di inizio secolo, messo a prova nella lotta contro il nascente autoritarismo fascista che subdolamente voleva trasformare chi non sosteneva il governo in un “antinazionale”, diseguale e limitato nei diritti. Lo avrebbe fatto da politico culturalmente forte e per questo concreto, alieno dal semplicismo ammiccante che divenne “torbida demenza” (parole di Umberto Saba) nel fascismo, che fu nobilmente evitato dai Costituenti, e che è invece una delle cifre politiche della contemporaneità.
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