29 Mar Il caso Assange e la libertà di espressione secondo gli Stati Uniti
Tratto da il Riformista, articolo di Nicola Canestrini
“È tempo che Assange, che ha già pagato un prezzo elevato per aver esercitato pacificamente i suoi diritti alla libertà di opinione, espressione e informazione, e per promuovere il diritto alla verità nell’interesse pubblico, recuperi la sua libertà”, scrivevano nel 2018 gli esperti delle Nazioni Unite sulle detenzioni arbitrarie, con piena condizione dello Special Rapporteur delle Nazioni Unite sui difensori dei diritti fondamentali. Mai parole furono più inascoltate, dato che Julian Assange – che già allora era detenuto da molti anni – continua ad essere detenuto e rischia la estradizione negli Stati Uniti. Come noto, Julian Assange, programmatore informatico che è diventato negli anni emblema della libertà di espressione e di informazione, è il fondatore di Wikileaks, sito creato nel 2006 per consentire la pubblicazioni di notizie di interesse pubblico, pur se segrete o secretate, ai whistleblower di tutto il mondo: il portale raccoglie centinaia di migliaia di documenti secretati di aziende e governi, fra i quali anche gli Stati Uniti (che condannano a 35 anni di carcere l’allora analista dell’intelligence americana Chelsea Manning, rea di aver passato informazioni secretate sulle violenze dell’esercito americano in Iraq proprio ad Assange).
Nel 2010 Assange viene indagato negli Stati Uniti per cospirazione a violare sistemi informatici governativi statunitensi e per spionaggio e rischia – anche se non si dovessero aggiungere nuove accuse una volta estradato – un totale di 175 anni di carcere; ed è proprio questa indagine pendente che ha dato origine alla richiesta degli Stati Uniti di estradare dal Regno Unito Julian Assange.
La storia giudiziaria complessa – che vede Assange arrestato nel 2010 inizialmente per un mandato di arresto europeo svedese per presunta violenza sessuale, poi archiviata nel 2017 – per ora trova un punto di arrivo nella pronuncia di ieri dell’Alta Corte inglese che proprio nel corso del procedimento estradizionale sostanzialmente chiede rassicurazioni diplomatiche agli Stati Uniti sulla effettività dei diritti fondamentali di Assange: in sostanza i giudici inglesi chiedono garanzie sul fatto che ad Assange, detenuto sostanzialmente da oltre un decennio (di cui gli ultimi 5 anni in carcere di alta sicurezza), in caso di estradizione abbia garantito il suo diritto alla salute, il diritto a vedersi riconosciuto, pur se non americano, il diritto di libera manifestazione del pensiero (dato che nel 2017 il capo della CIA, Michael Pompeo descriveva Wikileaks come un “servizio di intelligence ostile”), e la garanzia che non verrà irrogata la pena di morte.
Al di là dell’ipocrisia delle rassicurazioni diplomatiche, che consentono agli stati di emissione con un tratto di penna di spazzare via decenni di violazioni accertate dei diritti fondamentali semplicemente impegnandosi a garantire uno standard minimo al singolo estradando, va rimarcato come l’evidente interesse pubblico delle informazioni divulgate da Wikileaks rendano gli sviluppi del caso Assange termometri dello stato di salute delle democrazie. Il whistleblower agisce infatti nell’interesse pubblico, protetto – anche da ritorsioni – dalle Carte dei diritti, dalla normativa del Consiglio d’Europa e dell’Unione europea, esercitando nient’altro che il diritto fondamentale alla libertà di espressione. E la libertà di espressione costituisce uno dei fondamenti essenziali di una società democratica e una delle condizioni di base per il suo progresso e per l’autorealizzazione di ciascun individuo: secondo un celebre inciso della Corte europea dei diritti dell’Uomo nel 1976, si applica non solo alle “informazioni” o alle “idee” che sono accolte favorevolmente o considerate inoffensive o indifferenti, ma anche a quelle che offendono, scioccano o disturbano.
Sono queste le esigenze di pluralismo, tolleranza e ampiezza di vedute senza le quali non esisterebbe una “società democratica”. Proprio per l’importanza del diritto ad informare ed essere informati – “pietra angolare del sistema democratico”, “fondamento della democrazia”, “il più alto, forse dei diritti fondamentali” (citando sentenze della nostra Corte Costituzionale dal 1965 in avanti) – eventuali eccezioni devono essere interpretate in modo rigoroso e la necessità di eventuali restrizioni deve essere dimostrata in modo convincente, con poco spazio alle restrizioni al dibattito su questioni di interesse pubblico. Ora, se è vero che è stato ripetutamente affermato dalla Corte di Strasburgo che l’imposizione di una sanzione penale (anche se lieve!) è una delle forme più gravi di interferenza con il diritto alla libertà di espressione e che le autorità nazionali devono mostrare moderazione nel ricorrere a procedimenti penali, la incriminazione di Assange pare essere l’esempio perfetto di vendetta per via giudiziaria per aver rivelato – meglio: per aver permesso ad altre ed altri di rivelare – informazioni che in una democrazia non avrebbero dovuto neppure essere segrete perché essenziali nel dibattito politico e civile.
Lo scopo della pubblicazione di eventuali notizie su crimini di guerra non è solo quello di scoprire e attirare l’attenzione su informazioni di evidente interesse pubblico, ma anche di provocare un cambiamento nella situazione a cui tali informazioni si riferiscono, se del caso, assicurando un’azione correttiva da parte delle autorità competenti, anche sulla spinta dell’opinione pubblica. Che, mai come ora, dovrebbe far sentire la propria voce.
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