01 Mar Toghe senza freni, non può essergli chiesta più sobrietà: il caso Luppi-Pinotti
Tratto da Il Riformista, articolo di Paolo Pandolfini
I magistrati “non possono avere alcuna limitazione” riguardo la propria libertà di pensiero. E, a tal proposito, nemmeno può essergli richiesto “un maggiore livello di sobrietà” che li ponga “in una posizione deteriore rispetto agli altri cittadini”. Con queste motivazioni la sezione disciplinare del Csm ha assolto nei giorni scorsi il giudice ligure Paolo Luppi che su Facebook aveva definito Roberta Pinotti, ministra della Difesa nell’allora governo Renzi, una “guerrafondaia”, accostandola alla foto di Vanna Marchi.
Per il Csm si sarebbe trattato di un episodio di scarsa rilevanza, anche perché l’ex senatrice dem aveva deciso di non querelare la toga che si era successivamente scusata per i toni inopportuni. “E’ avvilente quanto accaduto”, ha commentato Pierantonio Zanettin, capogruppo di Forza Italia in Commissione giustizia che da anni si batte per ‘regolamentare’ l’uso dei social da parte dei magistrati. Nel 2017, dopo l’ennesima esternazione di una toga sul proprio profilo Facebook, Zanettin, all’epoca componente laico del Csm, decise di aprire una pratica per individuare delle ‘linee guida’ volte a garantire che la loro comunicazione social avvenisse nel rispetto dei principi deontologici e con forme e modalità tali da non arrecare pregiudizio alla credibilità della funzione.
Per Zanettin era necessario un “solenne intervento” per richiamare, nel rispetto della libertà di pensiero, i magistrati a canoni di maggiore prudenza, sobrietà e riservatezza nell’uso dei social network e piattaforme digitali in genere. Il Csm, però, a distanza di cinque anni, aveva deciso di archiviare direttamente la pratica perché l’argomento non sarebbe stato di sua competenza. “Nulla di nuovo. Ancora una volta, seguendo una tradizione ben consolidata in questi anni, il Csm ha preferito nascondere il problema sotto il tappeto invece di trovare una soluzione”, commentò Zanettin, ricordando che “il magistrato non è un cittadino come tutti gli altri: il suo ruolo gli impone di non lasciarsi andare a commenti e giudizi sconvenienti che possano comprometterne la terzietà ed imparzialità e che non possono essere giustificati con la libertà di pensiero”.
Il ‘testimone’, con l’augurio di maggior fortuna, è ora passato ad Ernesto Carbone, attuale membro dell’organo di autogoverno delle toghe in quota Italia viva che, con una nota indirizzata al Comitato di presidenza di Palazzo dei Marescialli, lo scorso ottobre ha chiesto infatti di aprire una pratica finalizzata “alla discussione e alla definizione di criteri guida per la comunicazione ‘social’ dei magistrati”. “Serve fare chiarezza sul tema dell’utilizzo che i magistrati possono fare dei social, al fine di garantire uniformità e parità di trattamento fra essi, relativamente al diritto di esprimere e diffondere le proprie opinioni”, ha sottolineato Carbone, soprattutto sulla natura stessa dei social, “se strumenti per l’espressione della vita privata o pubblica dei magistrati”.
“Chi prende a cuore la difesa di questi magistrati che si lasciando andare a commenti su Fb pensa che essi siano come il dottor Jekyll ed il signor Hyde: sui social posso dire tutto ed il suo contrario, invece quando scrivono le sentenze lo fanno in ossequio la legge ed in piena autonomia e indipendenza”, aveva affermato Antonio Leone, anch’egli ex laico del Csm. “Se un giudice usa i social per criticare o condividere questo o quel politico o le posizioni di questo o quel partito, può scrivere le sentenze più belle del mondo o fare le inchieste più azzeccate, ma presterà sempre il fianco a chi mette in dubbio le sue decisioni”, era stato invece il commento di Enrico Costa, deputato e responsabile Giustizia di Azione.
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