15 Dic Sesso in cella, il governo: «Giusto ma impossibile»
CORTE COSTITUZIONALE. Oggi la Consulta decide sulla legittimità sull’articolo 18 della legge 354/1975 «nella parte in cui non prevede che alla persona detenuta sia consentito, quando non ostino ragioni di sicurezza, svolgere colloqui intimi a tutela dell’affettività, senza il controllo a vista del personale di custodia»
Tratto da Il Manifesto, articolo di Eleonora Martini
La questione di cui si è occupata ieri la Corte costituzionale in udienza pubblica (ma la sentenza è attesa per oggi) è ancora considerata un po’ scabrosa. La chiamano «diritto all’affettività dei detenuti in carcere» ma, per usare le parole di Adriano Sofri, «siccome la nostra società, che ha finito di trattare il sesso nei giorni feriali, come un bicchiere di acqua sporca, continua a vergognarsene nelle feste comandate, allora preferisce parlare, piuttosto che di rapporti sessuali, di rapporti affettivi, madri che possono abbracciare i figli, famiglie che possono incontrarsi fuori dagli occhi dei guardiani. In effetti, oggi non possono farlo. Ma poi c’è il sesso: la nuda possibilità che un uomo o una donna in gabbia incontri per fare l’amore una persona che lo desideri e consenta. Sarebbe giusto? È perfino offensivo rispondere: certo che sì». Risposta che da noi è ancora tabù ma non, ad esempio, in Austria, Belgio, Croazia, Danimarca, Francia, Finlandia, Germania, Norvegia, Olanda, Spagna, Svezia e Svizzera, come ricorda il segretario di +Europa Riccardo Magi nella prefazione alla proposta di legge «a tutela delle relazioni affettive intime dei detenuti» presentata alla Camera una settimana fa.
MA IL TEMA NON È NUOVO: la Consulta torna ad affrontarlo (giudice relatore Stefano Petitti) su impulso del Magistrato di sorveglianza di Spoleto Fabio Gianfilippi, dopo più di dieci anni dalla sentenza n. 301 del 19 dicembre 2012 nella quale i giudici costituzionali sollecitarono – inascoltati – il legislatore ad intervenire sull’ordinamento penitenziario per permettere ai detenuti di relazionarsi con il proprio o la propria partner anche sessualmente. Questione che attiene al diritto del detenuto di non essere sottoposto ad altra pena afflittiva se non quella della privazione della libertà personale, ma anche al processo di reinserimento del condannato. Lo spiega bene nell’ordinanza del 12 gennaio 2023 Gianfilippi che ha richiesto il giudizio di legittimità sull’articolo 18 della legge 354/1975 «nella parte in cui non prevede che alla persona detenuta sia consentito, quando non ostino ragioni di sicurezza, svolgere colloqui intimi a tutela dell’affettività, senza il controllo a vista del personale di custodia».
PERCHÉ IL DIRITTO all’affettività quale espressione della persona umana rientra tra i principi di rilievo costituzionale: lo hanno spiegato gli avvocati Daniela Palma e Alessio Mazzocchi, del Foro di Velletri, difensori del detenuto oggetto dell’ordinanza spoletina. Principi che anche per l’avvocato di Stato Massimo Giannuzzi «sono sacrosanti e incontestabili», malgrado abbia richiesto «l’inammissibilità della questione» per un problema legato alla «ineliminabile sfera della discrezionalità politico legislativa e della insostituibilità dell’intervento del legislatore. Oggettivamente – ha ammesso Giannuzzi – c’è una inerzia. E c’è, in base anche alla notizie avute, un Pnrr che non ci consente di fare un passo avanti». Infatti, riferisce l’avvocato di Stato, tra gli interventi previsti dal Pnrr «il Ministero informa che c’è la realizzazione di 8 padiglioni con capienza ciascuno di 80 posti», all’interno dei quali «sono previsti numerosi spazi per attività trattamentali per i detenuti», ma «nessuno spazio destinato allo svolgimento e all’esercizio del diritto all’affettività». E, secondo l’avvocato, «non è possibile una ipotesi di riprogettazione» dei padiglioni, che dovrebbero essere pronti entro il 2026.
Eppure, come hanno ricordato i difensori del detenuto di Velletri, che l’affettività sia tra i diritti inviolabili dell’uomo lo hanno affermato anche il Consiglio d’Europa nel 1997 e nel 2006, il Parlamento europeo nel 2017 e, da ultimo, anche la I sezione penale della Corte di Cassazione a gennaio di quest’anno. Il tempo per adeguarsi c’era.
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