cancel culture

Una riflessione molto laica sulla cancel culture

Di Garry Darancy. Tratto da La règle du jeu

Cosa succede quando il branco decide di abbattere la sua stella? Quando lancia una corda, ne cattura l’orbita e la trascina sotto la stratosfera? Il branco si accanisce su di lei, le assesta pugni e calci, e alla fine la lascia lì, la sua stella, insanguinata e inerte. Non deve alzarsi né muoversi.

“E tu  – mi viene chiesto per l’ennesima volta – pensi che dovremmo separare l’uomo dall’artista?”. La domanda potrebbe rivestire un qualche interesse, ma so bene che il più delle volte serve solo a metterti in un campo o nell’altro. Ti mettono nella casella giusta. La domanda è: fai parte del branco?

Ho l’arroganza di rispondere che non lo sono – penso che sia piuttosto elegante per uno studente di legge che sostiene di essere un libero pensatore. Tuttavia, intuitivamente, quando mi viene chiesto di spiegare la mia posizione (cioè che secondo me sì, l’uomo va dissociato dall’artista), mi sento in dovere di dire che sono effettivamente di sinistra, anche molto di sinistra […] Credo che dietro l’ideologia non si tratti che di una questione di sensibilità. Sì, penso che questo grande dibattito sulla cancel culture riguardi soprattutto il piano della sensibilità.

Anatomia di una disgrazia L’estetica della cancel culture versus l’estetica del granello di sabbia. Riflessioni di uno studente di diritto.

 

Garry Darancy, Anatomie d’une disgrâce – La Règle du Jeu – Littérature, Philosophie, Politique, Arts

Cosa succede quando il branco decide di abbattere la sua stella? Quando lancia una corda, ne cattura l’orbita e la trascina sotto la stratosfera? Il branco si accanisce su di lei, le assesta pugni e calci, e alla fine la lascia lì, la sua stella, insanguinata e inerte. Non deve alzarsi né muoversi.

“E tu  – mi viene chiesto per l’ennesima volta – pensi che dovremmo separare l’uomo dall’artista?”. La domanda potrebbe rivestire un qualche interesse, ma so bene che il più delle volte serve solo a metterti in un campo o nell’altro. Ti mettono nella casella giusta. La domanda è: fai parte del branco?

Ho l’arroganza di rispondere che non lo sono – penso che sia piuttosto elegante per uno studente di legge che sostiene di essere un libero pensatore. Tuttavia, intuitivamente, quando mi viene chiesto di spiegare la mia posizione (cioè che secondo me sì, l’uomo va dissociato dall’artista), mi sento in dovere di dire che sono effettivamente di sinistra, anche molto di sinistra.

E davvero molto rapidamente, dovrò dire quanta empatia e rispetto ho, naturalmente,  per le vittime. Allora la mia risposta suonerà senza dubbio vuota come la domanda stessa. Quello che mi incuriosisce di più sono i parametri che regolano una domanda del genere. Credo che dietro l’ideologia non si tratti che di una questione di sensibilità. Sì, penso che questo grande dibattito sulla cancel culture riguardi soprattutto il piano della sensibilità. La logica, come tutti sappiamo, è per ciascuno di noi ciò che vorremmo che fosse. Il buon senso di una persona raramente ha senso per un’altra. La sensibilità, invece, è abbastanza vasta da comprendere, se non il fenomeno in sé, almeno la fedeltà che gli prestiamo. A mio avviso, è un intero sistema interiore, un’intera estetica personale che deciderà per noi da che parte stare, se approvare o meno la cancel culture. Cosa mi muove? Cosa ha senso per me? Alla base tutto funziona in termini di avversione. Prendendo me stesso come esempio, non mi fido delle masse o delle folle (forse le vite precedenti mi hanno mostrato di cosa sono capaci?). L’atto di giudicare e di voler punire mi sembra faticoso. Non provo attrazione per questi due verbi. E quando dico che voglio diventare avvocato penalista, ottengo la seguente reazione: “Ah, ma che dire della difesa dei criminali? Stupratori, assassini? Oh no, ma non potrei”.

Una risposta del tutto legittima, tra l’altro. La società non sarebbe necessariamente migliore di quella attuale se l’intera popolazione esultasse all’idea di difendere i suoi delinquenti. Quasi sempre segue una seconda domanda: “Ma si potrebbe difendere, ad esempio, diciamo, un tale tizio o un tal altro?”. Il più delle volte il tale e il tal altro sono artisti accusati di aver usato la loro influenza per ottenere favori sessuali. Quello che mi stupisce è che mi risulta che agli avvocati delle vecchie generazioni veniva (viene tuttora) posta la stessa domanda, utilizzando come esempi noti serial killer e vicende particolarmente sordide. Questo significa che l’immaginario di oggi non ha più la stessa prospettiva: mettiamo le persone “accusate” sullo stesso piano di criminali quasi storici. La nuova paura dell’inconscio collettivo non è più necessariamente la morte – nell’era del virtuale, ci si chiede fino a che punto l’uomo rimanga lucido sulla sua mortalità e precarietà. La nuova paura di questo inconscio collettivo è la violenza fatta all’intimo; ciò a cui ho o non ho acconsentito.

Naturalmente, il motivo di una reazione così forte è che questo squilibrio, questa violenza, è tangibile ogni giorno. Dopo tutto, anch’io sono di sinistra e ho tutta l’empatia e il rispetto per le vittime di questa violenza. Per me, la posizione più lodevole resta quella della difesa. Difendere i deboli così come difendere il lupo cattivo, perché di fronte alla folla nessuno dei due ha una possibilità. E ancor meno in tribunale. Quel che mi  piace è  l’estetica del granello di sabbia.

Essere un granello di sabbia significa rallentare gli ingranaggi della ghigliottina ed essere soli di fronte all’ovvio, di fronte alla massa. Se – tralasciando considerazioni filosofiche più avanzate – concordiamo sul fatto che l’estetica si riferisce alla scienza della bellezza, di ciò che appare armonioso all’anima, allora dobbiamo capire quale tipo di godimento può procurare la cancel culture.

C’è l’eccitazione degli spettatori che vengono a vedere il rogo e sentono (oltre al fumo) la loro superiorità morale di fronte al condannato a morte. A nessuno importa se sia colpevole o meno, a parte qualche profilo convenzionalmente dissidente. Che si tratti di roghi o di omicidi sociali, non facciamo altro che soddisfare un impulso collettivo (non ho inventato nulla).

Si va per sublimare l’appartenenza al gruppo di fronte all’ impuro. E non ditemi che si tratta solo di sentire che è stata fatta giustizia; nello Stato di diritto che predichiamo mattina, mezzogiorno e sera, la giustizia non ha nulla in comune con la vendetta[1].

Ancora più significativo è il meccanismo che entra in gioco quando qualcuno è in una posizione di potere al momento della sua caduta, o comunque era sotto i riflettori. Se brilla, è perché è perché brucia; alimenta il suo braciere con la mediocrità degli altri. In questi casi, la giustizia assume una qualità simile alla vendetta, e la vendetta assume una qualità sadica. È il piacere di aver distrutto.

“Camminavi come un vincitore, sembravi un re”[2].

Non sono un sacerdote del tempio la cui missione è proteggere gli idoli. Sono consapevole che le persone nella cosiddetta luce raramente sono sante. Sono scarafaggi tra gli scarafaggi, solo che sono scarafaggi più visibili, questo è certo. Distinguersi significa anche esporsi.

E in questa estetica della frantumazione, non sono solo gli accusati a cadere preda dell’ira della folla. Ci sono anche i loro presunti complici, che vengono braccati con altrettanto fervore. Queste persone sono “problematiche”, ove rifiutano di integrare questo ordine estetico. Il termine “problematico” mi esaspera, anche se è entrato nel vocabolario comune. Non capisco nemmeno come si possa applicare agli artisti – come se un’intera sezione della storia dell’arte mondiale non fosse composta da artisti problematici per il loro tempo, per la loro morale e per la loro arte.

Non si può ravvedere che ipocrisia in tutto questo: con il pretesto di una grande causa, di un’estetica del rovesciamento, non facciamo altro che gioire delle disgrazie altrui. Non è forse questo movimento interiore che i nostri riti giudiziari dovrebbero impedire? La risposta è che la sfiducia nell’istituzione giudiziaria si spiega con le sue debolezze. Lungi dall’essere perfetta, è solo indebolita ulteriormente dalla pressione mediatica e ideologica e finisce per abusare dei suoi stessi principi.

Non scrivo per darvi lezioni sulla presunzione di innocenza – non potrei farlo – o sulla cancel culture. Scrivo per trovare estetica che mi appartiene. Anch’io credo nell’importanza degli affetti nei casi penali, ma all’interno di un quadro rituale: quello del dibattito. Se traboccano e travolgono tutto, il caso è perso.

Nessuna catarsi, nessuna purificazione possibile. La politica è affare delle masse, ma la giustizia no, ed è per questo che viene dispensata in loro nome. È la garanzia della fiducia che una società sana ha in se stessa, sentendosi capace di produrre giudici competenti e – nel caso delle corti d’assise – cittadini in grado di cogliere intellettualmente un atto patogeno per giudicarlo secondo la loro intima convinzione.

In un simile contesto, io preferisco l’estetica del granello di sabbia. Così facendo, esalto la mia individualità, perché so che è in grado di trasformarmi in qualcun altro, e quindi di ampliare la mia interiorità. “Non deridere, non piangere, non odiare, ma capire”[3]. È qui che dovrebbe risiedere l’interesse principale del giudice. Comprendere significa accrescere la propria conoscenza. Perciò preferisco una sensibilità tutta incentrata sulla comprensione. Mentre scrivo, mi chiedo se la letteratura non dovrebbe essere obbligatoria per tutti i futuri professionisti del diritto. La letteratura è l’unico modo per avvicinarsi il più possibile al processo di pensiero di un altro essere, sia esso autore o personaggio. La letteratura esalta anche l’individualità. Trasmette una profondità di comprensione senza pari.

Vi ho fatto fare un giro nel mio orizzonte, quello di uno studente che riflette sulla sua avversione per l’estetica della cultura dell’annullamento, del rovesciamento a tutti i costi, e per gli eccessi che essa genera. Trovo più facile, e anche più umano, difendere e capire che giudicare e odiare. È motivo di orgoglio essere uno di quei discreti addetti ai lavori, quelli che cercano di evitare il fragore delle folle, che cercano di non farsi invadere il cuore dalle passioni.

Preferisco la luce alla ottusa cecità della repressione contro chi non è come me. Sono per la giustizia, non per la vendetta. Ci sono suoni più melodiosi nella ragione che nell’odio puro. Ma per quanto mi adorni di bei sentimenti, per quanto disserti sul campo avverso, non posso che comprendere tutta l’eccitazione, tutta l’energia che la disgrazia provoca. Una stella che precipita è, almeno per un momento, una stella cadente.

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[1] Nelle Eumenidi, Eschilo rivisita il mito di fondazione delle istituzioni giudiziarie della città di Atene: le Erinni, primitive divinità della vendetta, sono state pacificate dall’astuzia di Pallade, davanti alle Eumenidi, dee custodi dell’ordine e della giustizia resa secondo principi divini.

[2] Milord, Édith Piaf.

[3] SPINOZA (Baruch), Trattato politico, I, §4, trans. CAILLOIS (Roland).

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