02 Gen Si può ridere di dio?
Di Emanuela Marmo. Tratto da Micromega del 12 dicembre 2024
Si può ridere contro dio?
Sì. Anticamente ne era consapevole proprio chi aveva a che fare con il sacro e con il mistico; ne era consapevole il celebrante che con il dio comunicava indossando zoccoli e pelle di capra. Al dio malevolo, il rituale si rapportava attraverso la parola, una parola violenta e rovesciata. Era ingiuria, era invettiva, era bestemmia. Era oscenità.
Oggi chi ride di dio non lo fa necessariamente per situarsi nella dimensione del sacro, nel legame tra vita e morte, nel caos che mescola fecondità e sterilità. Spesso chi ride di dio desidera mettere in discussione un sistema culturale, prova a incrinare la potenza comunicativa di certa propaganda nonché i presupposti ideologici con i quali essa si giustifica e legittima. Effettivamente non tutti hanno la necessità di sondare il mistero, il che ci porta a ricordare che altri ordini, non solo il sacro, possono essere centrali nell’esistenza di una persona. Può accadere pertanto che si senta l’urgenza di esplorare fenomeni sociali, eventualmente anche di contrastarli, o deriderli.
Charlie Hebdo ha indetto un concorso di vignette caricaturali intitolato Rire de Dieu. Qualcuno ha bocciato l’iniziativa, della quale evidenzia la deliberata provocazione. Qualcuno insinua anche che questo modo di ridere di altri sia paragonabile all’ingiustizia del bullismo o del mobbing, che sia cioè un ridere discriminatorio, rivolto a credenti innocenti e fragili, vittime di insulti gratuiti, inutilmente volgari o aggressivi.
A mio parere, il contest indetto da Charlie Hebdo non si può comprendere nel suo significato culturale, storico o politico, se lo si pone in relazione unicamente con i termini espressi nel titolo: il ridere e dio. Il rapporto tra la risata e dio, che pure è il requisito per rispondere al bando, non può tuttavia essere analizzato senza interrogarsi sul perché ridere di dio e sul perché farne un tema di concorso.
Vorrei iniziare il mio ragionamento proprio da qui.
Ha indetto il concorso la stessa redazione che dieci anni fa ha subìto un attentato jihadista, costato la vita a 12 persone. L’obiettivo del concorso è denunciare «il potere di tutte le religioni».
Quindi, mi pare evidente che iniziative come quella di Charlie Hebdo non connettono la parola “dio” al divino o al sacro o al misterioso, bensì al politico, al sociale, al culturale. “Dio” è l’oggetto tematico perché il potere religioso si costruisce attraverso il discorso su dio: rappresenta sé stesso come una emanazione della volontà di dio, si legittima in quanto manifestazione in terra di dio. Pertanto, chi vuole contestare un regime o un sistema di questo tipo, deve necessariamente contestare il principio su cui esso si fonda. Tra le possibili armi con cui può affrontarlo c’è la risata.
Ridere in arte non si risolve in un atto prettamente psicologico, come un gesto o una reazione. È un meccanismo retorico. Ovvero è una tecnica. Serve, al livello più utilitaristico, a catturare il pubblico e a definire un’alleanza con esso. Nel caso della satira ridere è una tecnica strutturale portante: senza il ridere non ci sarebbe satira. La risata satirica è offensiva perché, a differenza del comico, nella satira ridere non è un obiettivo. Il fine è individuare un bersaglio e punirlo, pertanto la scelta tecnica e retorica della risata deriva dal fatto che essa è uno strumento per esprimersi “contro” qualcosa o qualcuno.
Di particolare significato è che tale strumento sia brandito ancora una volta proprio da chi è stato severamente e tragicamente giustiziato per averlo adoperato.
Non ragionar di lor, ma guardare e passare, volendo citare Dante, secondo me significa sottrarsi a un ragionamento che non riguarda più cosa sia lecito dire o non dire. Significa non riflettere sul congelamento – nelle opinioni e nelle condotte – che le scriteriate reazioni dei fedeli hanno gettato sulla nostra capacità di confronto. Il fatto che, in merito alle reazioni dei fedeli, prevalga una sorta di silenzio, di generalizzata comprensione afferma l’idea inaccettabile che il fedele sia un cittadino particolare. Le particolarità che gli vengono riconosciute servono a tutelare i privilegi che le istituzioni religiose richiedono per sé, per la voce che ritengono di avere in qualsivoglia capitolo e per quella curiosa aspettativa di “rispetto” che esigono, chiamando rispetto ciò che in realtà è osservanza: ma può avere osservanza della religione chi non è credente? Può, chi non è credente, comportarsi come se lo fosse?
Ci sono stati diversi concorsi anticlericali negli ultimi vent’anni. Voglio ricordare quello del 2010, negli Stati Uniti. Comedy Central cancellò l’episodio 201 di South Park perché Trey Parker e Matt Stone erano stati minacciati di morte per aver raffigurato Maometto. Una giovane e sconosciuta illustratrice di Seattle di nome Molly Norris istituì l’Everybody Draw Muhammad Day (il giorno in cui tutti disegnano Maometto): i fondamentalisti non avrebbero potuto uccidere tutti, se tutti avessero disegnato immagini di Maometto, in forma di protesta in favore della libertà d’espressione.
La pagina Everybody Draw Mohammed Day superò i 100.000 partecipanti, ma contestualmente ne fu aperta un’altra, antagonista, Against ‘Everybody Draw Mohammed Day. Anch’essa attirò più di 100.000 sostenitori. Il religioso yemenita-americano Anwar al-Awlaki inserì Molly in una hitlist; nella versione inglese della rivista di al-Qaeda, Inspire, scrisse: «La medicina prescritta dal Messaggero di Allah è l’esecuzione di coloro che sono coinvolti», aggiungendo anche che il gran numero di partecipanti avrebbe reso più facile il compito: ci sarebbero stati più obiettivi tra cui scegliere e i governi non avrebbero potuto dare protezione a tutti.
Molly Norris vive nascosta da allora.
Le vignette anticlericali provocano l’ipocrisia, identificano nel potere religioso un pericolo sociale e propongono una forma di resistenza e di de-potenziamento dell’avversario, ricorrendo a un’arma vitale, carnale e decadente insieme, quasi circense: la risata.
Sì, è possibile o forse diffusamente vero che gli autori anticlericali abbiano perso il senso del mistero, non siano suggestionati dal miracolo o incuriositi dall’inspiegabile. Ma nessuno di quelli che conosco ha smarrito il senso del diritto. Io direi che è disonesto fingere di credere che gli autori satirici ce l’abbiano con dio. Lo sappiamo tutti che ce l’hanno con i preti, con i fanatici, con i capi spirituali, con le organizzazioni attraverso le quali la nostra libertà di scelta in ambito riproduttivo, sessuale e di cura è subordinata alla coscienza di altri. D’altra parte deridere l’idea e non le persone è un modo leale di pronunciarsi contro un pensiero e non contro chi lo pensa. Se la satira ride di dio, lo fa per similitudine, metafora, simbolismo, per sineddoche, per metonimia. Ma di cosa sta parlando davvero lo sappiamo. Quindi guardare e passare oltre ci rende alquanto ignavi.
In conclusione però mi preme di ricordare che l’utilità della bestemmia quale esternazione di riscatto non si riduce ai fatti di fede o alle idee religiose, ma alla libertà d’espressione nella sua totalità. Dal momento che gli scioperi non servono più, che le forme del dissenso conquistate dalla democrazia a duro prezzo stanno traballando e rischiano di diventare fuorilegge, dal momento che colà dove si puote ciò che si vuole si sta decidendo che dobbiamo tutti essere impiegati in una grande farsa (i cattivi sono giustamente sanzionati e puniti, il lavoro è finalmente garantito, anzi andiamo a gonfie vele, le pensioni sono in aumento, l’Italia è difesa dagli invasori, dunque non c’è nessun motivo di dissentire e di infastidire la società), lasciateci almeno Dio e le bestemmie che da sempre ci ha concesso ripiegando benevolmente i fulmini nella fodera. Perché, ricordiamolo, non è lui, l’Offeso, ad accendere micce o allestire tribunali contro di noi bestemmiatori.
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