Tratto da Polo del '900 e Biennale Democrazia Il Polo del ‘900 ospita e partecipa all’organizzazione e curatela di alcuni eventi...

Tratto da il manifesto di Francesco Pallante Tra le più nefaste conseguenze del sotto finanziamento del Servizio sanitario nazionale (Ssn), particolarmente pesante è quella che, da molti anni, si abbatte sui malati non autosufficienti. Nonostante la loro condizione di malattia, il più delle volte certificata dalle stesse strutture del Ssn, sempre più numerosi sono i non autosufficienti lasciati privi di assistenza sanitaria, specialmente a causa degli atti amministrativi con cui le regioni e i comuni aggirano, violandole, le leggi attuative del diritto costituzionale alla salute (esse stesse, peraltro, oggi minacciate dal progetto di legge sulla non autosufficienza).
Tratto da Riforma.it di Peter Ciaccio

In tempo per il XVII Febbraio è uscita per Netflix una serie tv che oscilla tra il legal e il crime, con protagonista una delle personalità più importanti della storia valdese, una donna che lottato per i diritti di tutti e tutte. La legge di Lidia Poët [pronunciato Pòet, sic] pare prendere, però, solo pochi elementi dalla storia: qualche nome, l’ambientazione torinese e due eventi biografici, cioè la cancellazione di Poët dall’albo l’11 novembre 1883, appena tre mesi dalla storica iscrizione quale prima avvocata, e il rigetto del ricorso da parte della Cassazione il 18 aprile 1884. Tutto, ma proprio tutto, il resto è frutto di invenzione. Pertanto non si può parlare di un’opera biografica. La scelta degli autori di omettere due informazioni importanti e potenzialmente gustose per il pubblico, quali il suo essere valdese e montanara, è di difficile comprensione. Di solito, i personaggi più caratterizzati sono quelli in cui è più facile identificarsi: quanti maschietti di città si sono commossi di fronte ai sentimenti della piccola Heidi?

Tratto da Dire di Chiara Adinolfi 

ROMA –  Il video che sta già circolando sui social è confusionario, ma basta per capire lo stato di tensione che si è accesa questa mattina al liceo ‘Einstein’ di Via Bologna a Torino, da ieri occupato per protestare contro “il modello scolastico disegnato dal ministro dell’Istruzione Valditara e contro il suo concetto di merito”, spiega alla Dire Martina, studentessa torinese. Nelle immagini pubblicate sulle pagine Instagram di ‘Osa nazionale‘ e ‘Collettivo Einstein Torino‘, si vedono gli occupanti trincerati dentro la scuola e, fuori dai cancelli, gli agenti della Digos in borghese che tentano di accedere. Per una frazione di secondo, si vede il braccio di un agente attorno al collo di uno studente, poi la presa viene lasciata, il cancello si richiude e gli studenti tornano a urlare “fuori la polizia dalle scuole”. “Ora la situazione si è calmata”, spiega alla Dire Martina, che non frequenta il liceo Einstein ma fa parte di Osa Torino, l’organizzazione studentesca che ha promosso l’occupazione. Dopo l’episodio di questa mattina gli studenti hanno indetto un’assemblea nel primo pomeriggio e sono intenzionati a continuare la loro protesta. “Forse l’occupazione dell’Einstein ha dato fastidio perché non è stata una finta occupazione ma una vera protesta, con corsi sulla lotta No-Tav, e laboratori sul diritto alla casa e sul conflitto in Palestina”, spiega la studentessa. “L’intenzione è quella di far proseguire l’occupazione fino a venerdì, ma a questo punto speriamo di coinvolgere anche altre scuole e di estendere la protesta”, aggiunge.

Tratto da CNGEI

Il nostro è un movimento libero, accanitamente, irriducibilmente libero da ingerenza politica, confessionale o di interesse e deve rimanere tale contro chiunque fosse di diverso avviso. E' uno dei nostri vanti, anche se da esso derivano molte difficoltà materiali." Così si apriva l’editoriale “Perché è risorto il CNGEI” apparso sul N° 1 del 1945 della rivista “Boy scout” risorta insieme al Corpo Nazionale Giovani Esploratori Italiani dopo la dittatura fascista e lo scioglimento dei movimenti associazionistici. In queste parole c’è tutto ciò che ancora oggi ci accompagna nella nostra quotidianità. E con  nostra vogliamo includere tutti coloro che come noi credono che la laicità sia un valore irrinunciabile. CNGEI da più di 100 anni accoglie le nuove generazioni in un contesto educativo laico.

Tratto da La Stampa di Serena Riformato

Davanti all’ambasciata della Repubblica islamica a Roma attivisti e cittadini hanno accompagnato la consegna della petizione de La Stampa. Il direttore Massimo Giannini ha depositato otto scatoloni con le sottoscrizioni.

“Mai dimenticare, mai perdonare”. Davanti all’ambasciata della Repubblica islamica a Roma attivisti e cittadini hanno accompagnato la consegna della petizione de La Stampa per chiedere il rispetto dei diritti umani dei manifestanti iraniani che da oltre cento giorni il protestano contro il regime degli ayatollah.

Ai piedi della porta dell’ambasciata il direttore de La Stampa Massimo Gianni ha depositato i dieci scatoloni contenti le oltre trecentomila firme raccolte per salvare la vita di Fahimeh Karimi. Le nostre, le vostre firme per chiedere di fermare le incarcerazioni ingiuste, le torture, le condanne a morte di chi in Iran manifesta pacificamente per cambiare il proprio Paese.

Tratto da Comune Info

Denunciare l’apartheid israeliana contro la popolazione palestinese è un’attività politica, quindi non si può fare. Lo sostengono l’azienda dei trasporti di Torino e Mondadori a Milano, proprietarie degli impianti che ospitano pubblicità sui pannelli luminosi delle pensiline. La campagna non gradita è nata dal basso a Firenze per denunciare, anche sulla base del dossier di Amnesty International, le leggi e le violente pratiche di oppressione dello Stato ebraico che nega il diritto all’autodeterminazione – e ad esistere come popolo – ai palestinesi. Sulla possibilità di utilizzare il concetto di apartheid, non necessariamente identico a quello adottato fino al 1991 in Sudafrica, si veda anche l’ampia e bella recente intervista a Francesca Albanese, relatrice speciale dell’Onu per i diritti umani nei Territori Palestinesi Occupati.

I pannelli luminosi che riportano la denuncia di Amnesty e la condanna dell'Apartheid israeliano devono spegnersi a Torino e mai accendersi a Milano.

I contratti stipulati sono stati rescissi e il danaro già versato sarà restituito.

L’Azienda Trasporti GTT, proprietaria degli impianti a Torino, non ammette messaggi di connotazione politica e Mondadori a MILANO inibisce il caricamento di messaggi con richiamo ad attività politiche.

Tratto da Jacobin di Carlo Greppi A Torino cento anni fa, dal 18 al 20 dicembre 1922, i fascisti uccisero impuniti numerosi oppositori. Fu la dimostrazione che il volto legalitario del regime nascente era indistinguibile dal profilo criminale.

Esordisco con una provocazione: inizia a fare una certa impressione, anche se non dovrebbe, avere una piazza intitolata a delle vittime del fascismo, e non a dei fascisti.

Una considerevole parte dei «segni» commemorativi del Ventennio, monumentali e odonomastici, infatti, inquina ancora il panorama della penisola. Se la fondamentale mappatura dell’Istituto nazionale Ferruccio Parri quest’estate aveva già catalogato circa seicento luoghi, tra nomi di vie e monumenti, come anticipato su Jacobin dalla coordinatrice del progetto, la storica Giulia Albanese, mentre scrivo – metà dicembre 2022 – le occorrenze rilevate dal portale I luoghi della memoria dell’Italia fascista, continuamente aggiornato, sono ormai ben 1.456. Come scrivono la stessa Albanese e Lucia Ceci, curatrici de I luoghi del fascismo. Memoria, politica, rimozione (Viella, Roma 2022), nel passaggio tra XX e XXI secolo «il lascito di costruzioni del Ventennio è molto consistente e induce a riflettere sui modi diversi con cui la società italiana convive con simboli e miti di un’Italia che non esiste più […]. Nell’Italia di oggi, a cent’anni dalla nascita del regime, le difficoltà di storicizzare e risemantizzare i luoghi del fascismo sono un segnale delle oscillazioni in cui versa il paese nei suoi riferimenti identitari». A questo proposito, allo scoccare del centenario della «strage di Torino», conviene tornare sugli eventi e sui significati che uno dei più atroci fatti di sangue del «biennio nero», in realtà immediatamente successivo, svela ancora oggi. Partendo proprio da un luogo, piazza XVIII dicembre, per consuetudine (a mio modo di vedere inelegante, in questo caso) scritto in numeri romani, in pieno centro del capoluogo piemontese. La matrice di questa denominazione la si trova nella decisione del comune di Torino, tra il 1945 e il 1946, di avviare sessanta nuove intitolazioni o sostituzioni: l’elenco diramato a pochi mesi dal termine del secondo conflitto mondiale si apre proprio con piazza San Martino, che diventa così «piazza XVIII dicembre» nell’anno in cui viene anche posta una lapide in memoria delle vittime della strage; è ancora lì, all’angolo tra la piazza e via Cernaia, a pochi passi dall’ex ingresso della stazione ferroviaria di Torino Porta Susa, con la canonica scritta «Ai martiri dell’eterna libertà». La data, per chi ha familiarità con gli eventi di quegli anni sul piano nazionale ma non con questo specifico fatto di sangue locale, non può non saltare all’occhio: perché il 18 dicembre, con il fascismo al potere da oltre un mese e mezzo? Perché una strage, e perché a Torino?