Gpa: discuterne senza subalternità
Tratto da ilmanifesto.it Il femminismo di ogni tempo lotta contro la subalternità delle donne, ma che cosa significa essere “subalterne”? Farsi...
Tratto da ilmanifesto.it Il femminismo di ogni tempo lotta contro la subalternità delle donne, ma che cosa significa essere “subalterne”? Farsi...
Dal mondo omerico, in balia degli dei e del destino, alla Grecia classica, che annovera tra le azioni involontarie – e non punibili – l’omicidio commesso in preda all’ira, fino al dibattito a distanza tra Grozio e Rousseau sulla liceità della schiavitù volontaria, la riflessione sul significato, i limiti, i presupposti della “libertà del volere”, e sulle sue implicazioni etiche e politiche, non cessa di sollevare difficili interrogativi. A seconda che, con Platone, ci auto-rappresentiamo come soggetti liberi e responsabili (non solo di singole azioni, ma delle nostre stesse inclinazioni caratteriali) oppure, con Spinoza, riteniamo che ciascuno sia in buona misura determinato ad agire dalle circostanze in cui si è trovato a nascere e a vivere, cambiano le nostre idee di colpa, merito, responsabilità. E cambia il modo in cui ci poniamo di fronte ad alcune questioni controverse, su cui oggi la sinistra, ma anche i movimenti femministi e le associazioni per i diritti umani, sono divisi: la possibilità di distinguere tra prostituzione “per necessità” e “per scelta”; l’ipotesi di legalizzare la maternità surrogata, per lo meno quando non sia motivata da fini di lucro; la qualificazione del velo islamico come simbolo di sottomissione o di libertà. Sullo sfondo, le problematiche legate alle nuove forme di sfruttamento e auto-sfruttamento del capitalismo contemporaneo, che fanno leva sulla disponibilità degli individui ad accettare di buon grado di essere usati come mezzi per soddisfare i fini altrui.
«Io da qualche parte penso di essere una donna di merda perché non so cucinare, perché non mi sono sposata e perché non ho avuto figli. Razionalmente so che va bene così, ma da qualche parte, dentro di me, c'è questa voce, esiste, e io, alla fine, penso che abbia ragione lei, che io sia sbagliata». Chiara Francini porta sul palco del Teatro Ariston, a tarda notte, tutti i dilemmi della maternità mancata (finora). «Arriva un momento della vita in cui è chiaro che sei diventato grande: quando hai un figlio», esordisce.
È il primo caso in italia. Grazie a una delibera approvata dal consiglio dell’Ordine degli Architetti, a Bergamo è possibile richiedere il timbro professionale con la dicitura di “architetta“, al femminile. La richiesta era partita dall’architetta Silvia Vitali, sostenuta dalle colleghe Francesca Perani e Mariacristina Brembilla. Vitali spiega che, con la sua decisione, l’Ordine aderisce “a una visione meno sessista, condivisa ormai da numerosi settori della società, dalle istituzioni di numerosi paesi europei nonché recentemente dall’Accademia della Crusca. Una visione – continua Vitali – dove la donna non rimane più nascosta all’interno del genere grammaticale maschile”.
Di cosa parla Da che parte stiamo. La classe conta?
Da che parte stiamo. La classe conta rappresenta un ulteriore tassello per ricostruire l’interessante percorso di studi di Bell Hooks, intellettuale e teorica femminista afroamericana, autrice di testi quali Elogio del margine/ scrivere al buio e Il femminismo è per tutti.
Attenta osservatrice e pensatrice, bell hooks – pseudonimo di Gloria Jean Watkins – analizza la società nella quale ha vissuto attraverso la lente femminista.
Da che parte stiamo. La classe conta si inserisce nel solco del dibattito della cosiddetta quarta ondata femminista, ed in particolare in quella che viene definita corrente intersezionale, che analizza la triplice matrice della repressione patriarcale: sesso, razza e classe.
Tratto da ONU Italia
Le Mutilazioni Genitali Femminili (MGF) riguardano tutti quei procedimenti che coinvolgono la rimozione, totale o parziale, degli organi genitali femminili esterni. Questa pratica non viene applicata per scopi di natura medica, bensì per motivi culturali. Sono numerose le complicazioni, a breve e lungo termine, sulla salute di coloro che sono soggette a questa usanza. Tra le peggiori, vi è la morte. Sebbene le MGF siano riconosciute a livello internazionale come una violazione estrema dei diritti e dell’integrità delle donne e delle ragazze, si stima che circa 68 milioni di ragazze in tutto il mondo rischiano di subire questa pratica prima del 2030.
La problematica delle MGF, sebbene diffusa principalmente in 30 Paesi dell’Africa e del Medio Oriente, è universale. Infatti, questa usanza è comune anche in alcuni Paesi dell’America Latina e dell’Asia. Non sono da escludere, inoltre, l’Europa occidentale, l’America del Nord, l’Australia e la Nuova Zelanda dove le famiglie immigrate continuano a rispettare questa tradizione.
Sui social tantissime donne hanno raccontato la loro esperienza, definendo una "violenza ostetrica" il fatto di essere costrette ad andare oltre le loro possibilità per mancanza di aiuto.
«Non devi lamentarti, è tuo figlio. Sai quante ore senza sonno ancora avrai davanti?». E ancora: «Devi sforzarti, non puoi chiamare per queste cose, ora sei una mamma». Già una mamma. Come lo era la donna di 30 anni che qualche giorno fa ha partorito il suo primo figlio all'ospedale Sandro Pertini di Roma. Emozionata ma stanca, dopo 17 ore di parto, si è addormentata con il suo piccolo tra le braccia e l'ha soffocato. La donna era sul letto con il neonato che sarebbe dovuto essere rimesso in culla dopo l'allattamento, ma le cose non sono andate così. Ora quella mamma, "colpevole" di essere stremata da un lungo travaglio iniziato in piena notte e da un parto, ha perso il suo neonato a soli 3 giorni di vita. Ma la sua storia è quella di tante altre donne che sul web hanno condiviso le loro esperienze. Moltissime potevano essere lei, moltissime hanno rischiato la stessa tragedia lamentando che qualcosa sarebbe dovuto cambiare: «Se ad altre mamme non è capitato, è solo perché noi siamo state fortunate».
Per uno studio sull’impatto che gli stereotipi di genere hanno sulla percezione del dolore, un gruppo di ricerca ha messo in atto due esperimenti. Nel primo, cinquanta partecipanti hanno guardato video di espressioni facciali di pazienti, uomini e donne, con infortuni alle spalle e differenti gradi di dolore, mentre svolgevano alcuni movimenti. Ai partecipanti è stato chiesto di valutare il livello di dolore che secondo loro i pazienti stavano provando su una scala da 0 a 100. Al secondo esperimento hanno partecipato 200 persone che, dopo aver visto i video, hanno risposto a una serie di domande sul tipo di trattamento consigliato ai singoli pazienti, tra cure contro il dolore e psicoterapia, e su come secondo loro uomini e donne manifestino e sopportino diversamente il dolore. I risultati, pubblicati su The Journal of Pain a marzo 2021, dimostrano come vi sia un vero e proprio pregiudizio nei confronti del dolore delle donne. A molte più pazienti donne che uomini infatti è stata consigliata la psicoterapia invece di una cura di contrasto al dolore, e il dolore stesso delle donne è stato anche percepito tendenzialmente come meno intenso rispetto a quello mostrato dai pazienti uomini.
Giovanna Cristina Vivinetto ha ricevuto un risarcimento di 11 mila euro. Condannato l’istituto Kennedy di Roma.
Giovanna Cristina Vivinetto è stata allontanata nel 2019 dall’istituto paritario Kennedy di Roma per la sua condizione di transessuale. Ora la scuola dovrà risarcirla con 11 mila euro. Vivinetto racconta oggi in un’intervista a Il Messaggero di aver cominciato a lavorare il 23 settembre del 2019: «Sono stata licenziata il 14 ottobre. Praticamente sono stata in classe una decina di giorni in tutto. Dopo tre giorni di malattia, la preside mi ha convocata e mi ha detto che dovevo andar via perché mancavo di professionalità». Poi ha capito di essere stata discriminata in quanto transessuale. «La scuola sapeva della mia situazione. Anche perché nel curriculum era riportato il premio letterario che ho vinto. E lì parlavo proprio di questo. Sapevano tutto anche prima di assumermi. Qualcuno deve essersi lamentato e mi hanno licenziata». Ma la sua carriera come insegnante non si è conclusa: «Dopo il licenziamento nella scuola paritaria ho insegnato in due scuole pubbliche. Una media e una superiore di Roma. Mi hanno accolta senza alcun problema e con la massima discrezione. A settembre scorso sono entrata di ruolo. Sto facendo l’anno di prova come docente specializzata sul sostegno. Per me è un’esperienza bellissima. Voglio restare al fianco delle persone con difficoltà e tenterò anche il concorso per diventare preside». Mentre la sua famiglia «è sempre stata molto aperta. Ho un fratello gemello e siamo stati liberi di esprimerci. I miei genitori mi hanno sempre sostenuta permettendomi di realizzarmi. La prima vera discriminazione l’ho subita in una scuola, ma quando ero già una professoressa».
“Smettete di indorarvi la pillola!”, o meglio “Arrêtez de vous dorer la pilule!”, come si dice in francese. È proprio in Francia infatti che si è riaperto il dibattito su un tema che in Italia ancora fatica a trovare spazio: la contraccezione maschile. La scorsa estate il quotidiano francese Libération ha pubblicato in prima pagina un appello per chiedere al governo di portare avanti la discussione e la ricerca sugli anticoncezionali maschili. L’appello, accompagnato da una petizione online sulla piattaforma Change.org e da una campagna con l’hashtag #ContraceptonsNous, ha raccolto più di 31mila adesioni. Tra i primi firmatari ci sono medici, psichiatri, andrologi, attivisti, giornalisti e scrittori.
Nel paese già da alcuni anni esistono diversi collettivi di uomini che discutono delle opzioni a disposizione e cercano di creare consapevolezza su questo tema, per spingere la comunità scientifica a rendersi conto delle attuali esigenze delle coppie. Fino a oggi, infatti, sono state soprattutto le donne a farsi carico della contraccezione: esiste la pillola anticoncezionale, l’anello, il cerotto, il diaframma, la spirale, la pillola del giorno dopo e diverse altre opzioni. E per gli uomini? Le alternative sono poche e scarsamente impiegate, come vedremo.
In Italia la discussione sulla contraccezione maschile è ancora acerba. Emblematico è il fatto che l’ISTAT abbia pubblicato una rilevazione sulla salute riproduttiva della donna (e non degli uomini), quando nel frattempo è ancora difficile misurare anche solo quanti uomini usino regolarmente il preservativo. Nel capitolo sulla contraccezione femminile, i dati mostrano che il metodo più utilizzato dalle italiane sia proprio il preservativo (41%), seguito dalla pillola (27%) e dal coito interrotto (20%): quest’ultimo è considerato un metodo non sicuro secondo l’indice di Pearl, eppure siamo il Paese europeo che più lo pratica.
Nel 2016 anche la Società Italiana di Ginecologia e Ostetricia (SIGO) ha pubblicato un’indagine che mostra come solo il 30% degli intervistati ritenga che la contraccezione sia una responsabilità di entrambi nella coppia. Per ben il 62%, quasi 2 su 3, è un compito che riguarda solo e unicamente la donna. E in caso di gravidanza indesiderata, per il 41% si tratta di un “colpo basso” del partner.