Tratto da repubblica Proposta di regolamento per garantire il trasferimento delle tutele all'interno dell'Europa. Si pensa anche a un certificato europeo di genitorialità. Von der Leyen: "Sono orgogliosa delle nuove norme". BRUXELLES - I genitori dello stesso sesso e i loro figli dovrebbero essere riconosciuti come una famiglia anche si spostano da uno Stato dell'Unione a un altro. È uno dei principi al centro della proposta di regolamento presentata oggi dalla Commissione Ue per garantire le famiglie con genitori gay. "La proposta è incentrata sull'interesse superiore e sui diritti del bambino", spiega Bruxelles, evidenziando che "la genitorialità stabilita in uno Stato membro dovrebbe essere riconosciuta in tutti gli altri Stati membri, senza alcuna procedura speciale", incluso il riconoscimento per i "genitori dello stesso sesso". Le nuove norme, afferma la Commissione europea, garantiranno "chiarezza giuridica a tutti i tipi di famiglie che si trovano in una situazione transfrontaliera all'interno dell'Ue" e consentiranno "ai minori in situazioni transfrontaliere di beneficiare dei diritti derivanti dalla genitorialità ai sensi del diritto nazionale, in questioni quali la successione, il mantenimento, l'affidamento o il diritto dei genitori di agire in qualità di rappresentanti legali del minore (per questioni scolastiche o sanitarie)".
Tratto da valigiablu, di Roberta Covelli
PROPOSTO L'EMENDAMENTO PER SOSTITUIRE LA NORMA 'ANTI-RAVE'
Aggiornamento 2 dicembre 2022: Nella fase di conversione del decreto legge 162/2022, il Governo ha presentato un emendamento per sostituire integralmente l’articolo 5, che introduce la cosiddetta norma anti-rave. La proposta di modifica riguarda sia la formulazione, sia la collocazione, sia alcuni elementi sostanziali del nuovo delitto, ma restano intatte molte criticità. Il nuovo reato, sintatticamente più in linea con la formulazione delle altre norme del codice penale, non sarebbe più il 434-bis cp, bensì il 633-bis cp: in questo modo non si tratterebbe più di reato contro l’incolumità pubblica, ma di reato contro il patrimonio. Quanto alla sostanza del reato, si propone di eliminare il requisito numerico (50 persone) e di aggiungere quello sonoro, prevedendo che i raduni punibili siano quelli “musicali”. Verrebbe poi eliminato il riferimento al codice antimafia e quindi l’applicabilità delle misure di prevenzione, tra cui la sorveglianza speciale, contro gli indiziati del reato in questione. Infine, mentre nel testo originale (tuttora vigente) si parla di raduni da cui “può derivare un pericolo”, nella proposta di modifica si prevede che il reato si verifichi quando “dall’invasione deriva una situazione di concreto pericolo”, quindi rendendo attuale e non più solo potenziale il pericolo. La pena resta invece la stessa: da tre a sei anni, da 1000 a 10000 euro di multa. Si consente così il ricorso alle intercettazioni (che sono ammesse dal codice di procedura penale per delitti non colposi per i quali il massimo della pena sia superiore a cinque anni). E restano valide le critiche relative alla severità e alla proporzionalità del reato in questione: l’invasione per profitto è punita con una pena molto minore (da 1 a 3 anni, da 103 a 1032 euro) rispetto al nuovo reato di invasione per raduni musicali.
Il primo provvedimento ufficiale del governo Meloni, il decreto legge 31 ottobre 2022, n. 162, introduce un nuovo reato: invasione di terreni o edifici per raduni pericolosi per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica. Nonostante la cronaca degli ultimi giorni abbia indotto molti, compresa la Presidente del Consiglio in conferenza stampa, a collegare il nuovo reato al rave party di Modena, è lecito dubitare che una festa, per quanto non autorizzata, sia davvero la ragione di simili scelte di politica penale. La perplessità non riguarda solo la rapidità di intervento normativa rispetto al suo pretesto, quanto il suo porsi in coerenza con i provvedimenti in materia di ordine pubblico varati, tre anni fa, dal governo gialloverde e dall’allora Ministro dell’Interno Matteo Salvini, e in parte anche dal suo precedessore, Marco Minniti. In ogni caso, a prescindere dalle ragioni occulte o palesi dell’intervento normativo, bisogna ricordare che una legge è generale e astratta: riguarda tutti, non solo coloro contro i quali il legislatore del momento intende indirizzare la sua repressione. È il caso allora di lasciare da parte le opinioni e partire dai fatti. E i fatti, in materia giuridica, iniziano sempre dal testo della norma e dalla sua collocazione sistematica.

Cosa dice il decreto

L’articolo 5 del decreto 162/2022 incide su due codici: il codice penale, con l’introduzione dell’articolo 434-bis, e il codice antimafia (D.lgs. 159/2011), allargando l’applicazione delle misure di prevenzione anche “ai soggetti indiziati del delitto di cui all’articolo 434-bis del codice penale”. Già questo duplice intervento lascia intendere il livello di offensività che il legislatore collega a un delitto simile, ma prima di affrontarne le implicazioni bisogna capire quale sia il fatto di reato. Il primo comma del nuovo art. 434-bis cp, nel definire l’azione delittuosa, la descrive così: L'invasione di terreni o edifici per raduni pericolosi per l'ordine pubblico o l'incolumità pubblica o la salute pubblica consiste nell'invasione arbitraria di terreni o edifici altrui, pubblici o privati, commessa da un numero di persone superiore a cinquanta, allo scopo di organizzare un raduno, quando dallo stesso può derivare un pericolo per l'ordine pubblico o l'incolumità pubblica o la salute pubblica.
Tratto da valigiablu, di Bruno Saetta Da quando Twitter è stata comprata da Elon Musk, leggo molte persone sostenere che, in fondo, la caduta di Twitter era inevitabile: troppo tossico come social, troppe persone disfunzionali, troppi litigi, troppo hate speech, insomma un “luogo” irrecuperabile. In fondo meglio così, che cada, fallisca, chiuda. Chi vuole, chi ha qualcosa da dire veramente troverà i suoi spazi altrove. L’impressione, però, è che sia un’opinione un po’ fuori fuoco. Twitter è un social differente rispetto agli altri. Twitter e Instagram, ad esempio, seguono lo stesso modello di trasmissione, i tweet su Twitter e le foto su Instagram sono pubblici per impostazione predefinita, e chiunque può seguire chiunque, non ci sono limitazioni. Ma mentre Instagram è fondamentalmente basato sulle immagini, e quindi è principalmente votato a seguire marchi e influencer, Twitter rimane ancorato al testo (anche se si possono pubblicare immagini e video). Il cuore del servizio è il testo coi relativi link. La conseguenza immediata è che su Twitter, più che su qualsiasi altro social, è più facile seguire giornalisti, analisti, esperti, ma anche ovviamente odiatori seriali e propalatori di disinformazione. L’obiettivo di Twitter, la sua struttura, è di fornire informazioni, e la densità di informazioni su Twitter non ha uguali in nessuno altro social. Instagram è piacevole e rilassante, focalizzato sulle immagini che sono il centro dell'esperienza umana, Twitter invece è più intenso, basato sul testo si focalizza sul giornalismo, su ciò che accade nel mondo fisico, sia esso sport, o politica, o guerre. Ed è per questo che Twitter ha una base utenti decisamente inferiore a Instagram (circa 400 milioni contro 1,2 miliardi). Twitter non solo consente ai giornalisti di pubblicare storie per il pubblico, ma permette loro di tenere contatti con fonti, con altri giornalisti, con persone da seguire per approfondire le notizie (comunità accademiche e scientifiche). Twitter ha contribuito a far crescere il giornalismo indipendente e a far conoscere le voci non presenti sui media di massa, ha spinto molti giornalisti ad una maggiore obiettività (per timore di essere sbugiardati online). Inoltre ha consentito di recuperare il gap dei giornali che negli anni hanno cancellato le redazioni locali per questioni di budget.

Nel tentativo di fronteggiare le critiche crescenti per le violazioni dei diritti umani, il governo di Doha gioca la carta del “volto buono”. Ma ancora una volta elude i temi più scottanti.

Tratto da rainews, di Vittorio di Trapani "Ho provato qualcosa di dolce e mi piacerebbe condividerla con te”. E’ questa la frase scritta sull'adesivo di un pacchetto che, passeggiando per Doha, si può ricevere in regalo da un bambino in abiti tradizionali qatarini, accompagnato dalla sua mamma. Anche lei vestita con consueto abito nero. Stessa scena all'uscita dello stadio di una delle partite dei Mondiali. Si tratta di dolci o di datteri. “Scopri la nostra identità”, c’è scritto sull'adesivo. E poi c'è un Qr Code. Scansionandolo, porta al sito web del Ministero delle donazioni e degli Affari islamici del governo del Qatar. In particolare ad una pagina che propone il testo “comprendere l’islam” in 6 lingue diverse. Quindi, evidentemente, non un regalo, una attenzione per i tifosi. Ma un altro pezzo di propaganda da parte del governo qatarino, e in qualche modo anche di proselitismo in favore dell’Islam. Che, è bene ricordarlo, è uno dei doveri in capo a ciascun musulmano. E, come tutte le propagande che si rispettino, passa attraverso i canali che possono maggiormente far abbassare le difese all'interlocutore: quindi, la scelta di far consegnare questo regalo da un bambino, accompagnato dalla mamma. Nessuna presenza maschile. Per mostrare il volto buono, più accogliente di questo Paese.
L'intervento della moderatora della Tavola Valdese, Alessandra Trotta Tratto da chiesavaldese Torre Pellice, 24 Novembre 2022 «Sul tema dell'accoglienza e della benedizione delle coppie omoaffettive, la Chiesa valdese ha espresso ripetutamente una posizione netta e cristallina». Così la moderatora della Tavola Valdese, Alessandra Trotta, interviene sulle affermazioni del senatore Lucio Malan (esponente di Fratelli d'Italia e membro della Chiesa valdese) a proposito di diritti delle coppie omoaffettive anche in rapporto alla Bibbia, per rispondere a chi si chiede come mai la Chiesa valdese non parli. «Deluderemo tutti coloro che si attendono censure pubbliche nei confronti del senatore Malan. La censura non fa parte del nostro modo di essere chiesa – dice Trotta –. Ma questo non significa che la nostra Chiesa non parli. La nostra Chiesa parla attraverso i pronunciamenti ufficiali del nostro Sinodo che, al termine di un ampio e partecipato processo di confronto e condivisione, ha espresso, sul tema dell’accoglienza e della benedizione delle coppie omoaffettive, una posizione cristallina e lo ha fatto non per cedimento allo "spirito del mondo", ma ponendosi con serietà e senso di responsabilità davanti alla Parola, con una interrogazione attenta delle Scritture e nella fiducia della guida dello Spirito santo; insomma da credenti».
Tratto da ilpost Lunedì circa 300 donne hanno manifestato a Varsavia, in Polonia, davanti alla casa di Jaroslaw Kaczynski, il leader del partito di destra radicale Diritto e Giustizia che guida il paese dal 2015. La protesta era stata organizzata in seguito ad alcune dichiarazioni dello stesso Kaczynski, secondo cui il calo delle nascite in Polonia sarebbe riconducibile all’abitudine delle donne più giovani di bere troppo alcol, ma ha incluso anche una generale rivendicazione di maggior diritti, in modo particolare sui temi legati all’aborto. La polizia ha impedito alle manifestanti di avvicinarsi troppo alla casa di Kaczynski, mentre venivano urlati vari slogan e mostrati cartelli per chiederne le dimissioni.
L’elogio dell’umiliazione come dispositivo pedagogico è una triste novità: particolarmente grave, visto che proviene dal ministro che dovrebbe garantire una scuola libera e democratica per tutti Tratto da ilMulino, di Roberto Farné

Le recenti “esternazioni” del ministro dell’Istruzione (e del Merito, come ora viene definito), relativamente al rapporto fra giovani percettori del reddito di cittadinanza (RdC) e abbandono scolastico meritano qualche riflessione. Dice il ministro che dei 364.000 percettori del RdC nella fascia compresa fra 18 e 29 anni, 11.000 hanno solo la licenza elementare (o nemmeno quella) e 129 mila appena la licenza di scuola secondaria di primo grado. La conclusione del ministro è chiara: occorre portare questi soggetti (per amore o per forza, ma questo è un nostro inciso) a completare l’obbligo scolastico poiché, sono parole sue: «Questi ragazzi preferiscono percepire il reddito anziché studiare e formarsi per costruire un proprio dignitoso progetto di vita». Inoltre, continua il ministro: «Il reddito collegato all’illegalità tollerata del mancato assolvimento dell’obbligo scolastico […] è inaccettabile moralmente: significherebbe legittimare e addirittura premiare una violazione di legge» (il video con l’intervista è su Youtube e il testo è sul sito del ministero dell’Istruzione).

Si delinea così una relazione diretta fra abbandono scolastico / RdC / illegalità (cambiando l’ordine dei fattori il risultato non cambia). Tale relazione, che non neghiamo affatto possa esserci, andrebbe non solo “proclamata” ma dimostrata sulla base di dati, poiché in questi casi la quantità assumerebbe valore di qualità nel definire il fenomeno. Il quale fenomeno, anche se riguardasse poche decine di soggetti sarebbe comunque grave e andrebbe affrontato; ma come…? Facile togliere il RdC (questo è ciò che il governo comincerà a fare), più difficile riportare a scuola quei soggetti che la scuola l’hanno abbandonata anzitempo: che cosa è avvenuto nella loro vita da condurli a questa decisione?

<<Facile togliere il RdC, più difficile riportare a scuola quei soggetti che la scuola l’hanno abbandonata anzitempo: che cosa è avvenuto nella loro vita da condurli a questa decisione?>>

Non credo che il ministro pensi di rimandarli a scuola scortati dai Carabinieri. Questi processi vanno governati dal basso, non dall’alto. Vorrei ricordargli l’importante lavoro dei “maestri di strada” a Napoli e delle molte realtà del terzo settore che nel nostro Paese hanno lavorato e lavorano sul piano educativo per contrastare le condizioni di marginalità e devianza che portano spesso all’abbandono scolastico. Forse il ministro ignora che a queste realtà i fondi sono stati tolti in passato, e con il solo volontariato non possono sopravvivere, perché sono ambiti difficili in cui servono professionalità e continuità. Una proposta semplice: fare una ricognizione su queste realtà, individuare le migliori, promuoverne lo sviluppo, finanziarle adeguatamente, monitorarne i risultati, nel tempo necessario per avere risultati.

Quando alla fine degli anni Cinquanta del secolo passato ci si accorse che uno dei problemi dell’Italia era l’alto numero di adulti analfabeti o semianalfabeti, non si esitò a mettere in campo un progetto straordinario che coinvolgeva il ministero dell’Istruzione e la Rai: circa 2.500 Posti di Ascolto Televisivo sparsi nel Paese con altrettanti maestri-tutor e un programma TV affidato ad un maestro elementare, Alberto Manzi: si chiamava “Non è mai troppo tardi”. Ando in onda dal 1960 al 1968, si calcola che circa un milione e mezzo di italiani presero la licenza elementare grazie a quel progetto; a “Non è mai troppo tardi” nel 1965 fu assegnato il Premio Unesco come miglior programma televisivo per l’educazione. Intendo dire che se l’abbandono scolastico e i rischi conseguenti sono un’emergenza allora ci vuole coraggio, come si ebbe allora, il coraggio di un progetto che vada incontro a quelle persone, non che le punisca poiché la punizione, per chi la commina, non è un atto di coraggio e, per chi la subisce, assai spesso non è nemmeno efficace.

Quasi il 25% della popolazione è fuggita cercando opportunità all’estero. Eppure Maduro è ancora al potere e gode di un discreto consenso. La dimostrazione della schizofrenia di un mondo che a parole difende i diritti calpestati, ma poi... Tratto da Huffpost, di Alfredo Luís Somoza Del Venezuela non si parla ormai da molto tempo. Il Paese sudamericano è uscito dai riflettori dei media internazionali all’inizio della pandemia, per scomparire definitivamente con l’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina. Fondamentalmente ciò è accaduto perché gli Stati Uniti, fino a pochi anni fa impegnati in una campagna a tutto campo contro il governo di Nicolás Maduro, hanno concesso al Venezuela un’apertura che va letta integralmente nella logica della geopolitica del petrolio, scossa appunto dalla guerra Ucraina. È l’ennesima dimostrazione di come i diritti umani e politici si possano barattare senza rimorsi per garantirsi la continuità nei rifornimenti di materie prime strategiche. Sabato 26 novembre, a Città del Messico, l’opposizione e il governo venezuelano hanno raggiunto un accordo di minima per la ripresa del dialogo, agevolato dalla Norvegia in veste di mediatore e – soprattutto – dall’impegno statunitense sullo scongelamento dei capitali venezuelani all’estero, bloccati dalle diverse sanzioni accumulate negli anni dal Paese e dalla sua classe dirigente. I fondi dovrebbero essere investiti nella sanità e per l’alimentazione di un popolo ormai provatissimo: la crisi economica, infatti, risale addirittura a tempi precedenti alle sanzioni, quando fu innescata dall’incapacità dell’erede di Hugo Chávez di gestire l’economia nazionale. Intanto, il Venezuela è entrato nella storia come lo Stato americano che ha perso la maggior quota di popolazione nel minor tempo. Sono circa 7 milioni, secondo i dati delle Nazioni Unite, i venezuelani che negli ultimi 8 anni sono emigrati in altri Paesi latinoamericani, soprattutto Colombia e Perù, o verso gli Stati Uniti e l’Europa: significa che quasi il 25% della popolazione totale è fuggita cercando opportunità all’estero, un fenomeno che non si era mai verificato in tempi di pace. Eppure il governo di Maduro è ancora al potere e gode di un discreto consenso, ovviamente al netto dei dubbi sulla libertà di espressione e sulla trasparenza degli ultimi processi elettorali, come più volte denunciato.

La clausola da inserire in Costituzione è stata approvata alla Camera Bassa, grazie a un compromesso storico tra i centristi e la sinistra radicale. Più difficile il passaggio al Senato

Tratto da luce, di Graziano Davoli  “La legge garantisce l’efficacia e la parità di accesso al diritto di interrompere volontariamente una gravidanza” recita così la clausola, da inserire in Costituzione, approvata con 337 voti favorevoli, 32 contrari e 18 astenuti all’Assemblea nazionale francese. La risoluzione è frutto di un compromesso storico d’Oltralpe tra i centristi di Reinassance, partito del presidente Emmanuel Macron, e la sinistra radicale di La France insoumise, partito di Jean-Luc Mélenchon, che porta la Francia ad un passo dall’essere il primo Paese nel mondo a riconoscere l’aborto come diritto costituzionale. “Ci vorrebbe solo una crisi politica, economica o religiosa per mettere in discussione i diritti delle donne”, ha commentato entusiasta Mathilde Panot, capogruppo di La France insoumise alla Camera Bassa. La palla passa ora al Senato e qui le cose potrebbero complicarsi. La Camera Alta vede, infatti, la maggioranza dei seggi in mano alla destra neogollista dei Rébuplicains che, lo scorso ottobre, aveva già respinto la prima proposta. I conservatori non sono da soli, con loro anche l’estrema destra. Dal Rasemblement National di Marine Le Pen, che durante l’ultimo raduno del suo partito ha definito la proposta come “completamente fuori luogo”, sostenendo che il diritto all’aborto non è minacciato in Francia, al movimento Reconquête di Eric Zemmour per cui questa legge sarebbe “una perdita di tempo, pericolosa e inutile”. Ma il vento soffia in un’altra direzione come dimostra un sondaggio di Ifop commissionato dal think tank della Fondation Jean-Jaurès. Otto francesi su dieci sono favorevoli ad autorizzare l’aborto per legge, l’83% della popolazione ritiene che il diritto vada ulteriormente protetto attraverso una garanzia costituzionale.
Tratto da RaiNews, di Roberto Montoya

L'emblematica e controversa leader delle Madri di Plaza de Mayo affrontò la dittatura militare durante gli anni di piombo in Argentina. L'intervista a Leonardo Castillo

Si è spenta domenica scorsa all'età di 93 anni Hebe de Bonafini, presidente e fondatrice dell'Associazione Madri di Plaza de Mayo, con il fazzoletto bianco, protagonista centrale delle prime manifestazioni per i 30.000 detenuti-desaparecidos rapiti durante la dittatura militare tra il 1976 e il 1983, mantenendo l'impegno della lotta fino alla fine dei suoi giorni. Hebe María Pastor de Bonafini ha iniziato il suo lavoro come presidente dell'Associazione Madri di Plaza de Mayo nel 1979, dopo il rapimento e la scomparsa dei propri figli, in cui si è distinta per la lotta per i diritti umani, contro l'impunità dei colpevoli di crimini contro l'umanità, unitamente alla rivendicazione della militanza rivoluzionaria dei detenuti, dei desaparecidos e degli assassinati. Ha sempre detto di essere stata una normale casalinga, fino a quando la dittatura le ha tolto i due figli, fatto che l'ha trasformata in una grande combattente. Il presidente argentino Alberto Fernández ha decretato tre giorni di lutto nazionale alla "memoria" di Hebe, simbolo internazionale della lotta per i Diritti Umani, la ricerca della verità e della giustizia, che ha permesso di risalire all'identità di oltre 100 bambini sottratti a giovani madri, vittime di carcerazione, sparizione forzata ed esecuzioni extragiudiziali durante i sette anni della dittatura in Argentina. Bonafini era diventata un'icona della sinistra globale, i cui leader piangono oggi la sua scomparsa, ma anche per le sue espressioni di lode rivolte a personaggi della storia latinoamericana controversi come Che Guevara, Fidel Castro, e Hugo Chávez. I messaggi che esprimono le condoglianze per la morte dell’attivista argentina arrivano da tutte le parti, anche dai vescovi della Conferenza episcopale argentina (CEA). Anche Papa Francesco ricorda “l’audacia e il coraggio, in momenti in cui prevaleva il silenzio, che hanno contribuito a mantenere viva la ricerca della verità e della memoria”. Giovedì 24 novembre in Plaza de Mayo, nel luogo dove si svolge il tradizionale appuntamento dei desaparecidos, verranno sparse le ceneri di Hebe, come da sua volontà. Sarà un giorno di grande commemorazione e di mobilitazione in piazza. Abbiamo incontrato Leonardo Castillo, capo politico dell’Agenzia Télam, Argentina. Il presidente argentino Alberto Fernández ha decretato tre giorni di lutto nazionale alla "memoria" di Hebe de Bonafini, Presidente delle Madri di Plaza de Mayo, scomparsa domenica scorsa all'età di 93 anni. Che profilo può darci di lei? Hebe ha accompagnato l’esistenza di noi ultra quarantenni, e di oltre tre generazioni di argentini. È  stata fondamentale per la nostra educazione civica. Ha lottato per la memoria, la verità, la giustizia e per denunciare la dittatura. La sua integrazione nel movimento per i diritti umani ha affrontato la dittatura genocida. La sua impronta ha lasciato un segno nelle nostre generazioni. Abbiamo perso un riferimento politico e sociale di enorme importanza. Hebe soffrì molto per la scomparsa dei due figli nel 1977. Fu allora che si unì alla lotta delle madri di Plaza de Mayo, dove emerse come punto di riferimento, diventando poi leader del gruppo. Da allora ha rappresentato una figura fondamentale per il movimento dei diritti umani e per tutti coloro che si sono formati nel fervore di quella che fu la democrazia instauratasi nel dicembre 1983.
Tratto da ilManifesto, di Manuela Manera A livello individuale la dimenticanza si può perdonare. È però grave se avviene in un articolo giornalistico, perché mette in luce o una scarsa competenza o, peggio, un uso strumentale delle informazioni. Quando Ricolfi su Repubblica afferma che è sufficiente l’indicazione di Meloni di essere chiamata al maschile per “scatenare critiche, battute, ironie” compie un atto tendenzioso, tacendo la storia di un dibattito che in Italia è vivo da quasi 40 anni (A. Sabatini, Il sessismo nella lingua italiana, 1987). È reticente anche nel ricordare l’antecedente opposto, quello di Boldrini che volle per sé il femminile e fu oggetto di hate speech. In questi ultimi anni le polemiche sono state soprattutto sulle strategie tese a garantire una giusta rappresentazione a tutte le soggettività, introducendo nuovi simboli come l’asterisco (es. ragazz*) o la schwa (es. ragazzə). Strategie in uso già da una decina d’anni in gruppi ristretti e che ora si stanno diffondendo per libera scelta di chi costruisce una comunicazione e la vuole rispettosa delle differenze. Ricolfi confonde le battaglie per il riconoscimento dell’identità di genere (quindi la scelta di come nominarsi, se al maschile, al femminile o altro) con l’opportunismo di chi ricorre al maschile solo in certi momenti. Nel caso di Meloni – ma non è la sola – la scelta non riguarda la sua identità di genere ma un ruolo che lei interpreta in modo machista; tant’è che si rivendica donna, madre, cristiana, e in questi casi non declina al maschile. La sua è la sottolineatura, nel solco di una cultura patriarcale fortemente rivendicata, che il maschile è portatore di prestigio, il femminile no.
Tratto da Repubblica, di Lorenzo Sangermano Il senatore di Fratelli d'Italia ritorna sull'argomento dopo la dura opposizione contro il ddl Zan. Risponde Calenda: "Considerazioni indegne e sintomo di una profonda ignoranza". Pina Picerno: "Abominevole chi la pensa come lui". Gelmini: "Al senatore devono essere sfuggite le affermazioni di Papa Francesco". Malpezzi (Pd): "Fdi si dissoci", Della Vedova: "Destra reazionaria e illiberale". Malan replica: "Frainteso, mai detto quelle cose" Incalzato dai microfoni di Rai Radio1, il senatore Lucio Malan, compagno di partito della premier Meloni, si sbilancia e chiarisce la motivazione della sua fuga da Forza Italia, forza politica di Silvio Berlusconi. "Il motivo principale per cui sono passato a FdI? Ad esempio la posizione del governo Draghi sulla legge Zan, a cui io sono contrario", chiarisce il senatore. Un'opposizione già esposta nel percorso parlamentare del disegno di legge del senatore Pd Alessandro Zan e che, per Malan, trova giustificazione nella sua fede. Membro della chiesa valdese, istituzione favorevole ai matrimoni omosessuali, Malan si allontana dal credo della sua comunità. "Ma non abbiamo il dovere di obbedienza, - secondo il senatore - la chiesa Valdese è fondata sulla Bibbia e non sulla gerarchia". Per l'ex forzista la posizione nasce dall'autorità stessa della Bibbia. Infatti, nonostante nel testo sacro non vi sia alcun riferimento ai matrimoni omosessuali, "C'è scritto di peggio - continua Malan - ed in modo anche più esplicito. Non sui matrimoni ovviamente, a cui nessuno aveva pensato duemila anni fa". Una cosa però per il senatore è scritta nel testo sacro. "C'è scritto che l'omosessualità è un abominio, sia nell'Antico che nel Nuovo Testamento".

Calenda: "Considerazioni indegne"

Alle dichiarazioni del parlamentare di Fratelli d'Italia è seguita la risposta del leader di Azione Carlo Calenda. "Non so come qualificare queste esternazioni. Personalmente le considero indegne e sintomo di una profonda ignoranza. Se le nostre regole derivassero dal Vecchio Testamento - continua Calenda - non saremmo molto diversi dai talebani. Per fortuna abbiamo avuto il Vangelo e lo Stato laico". Dall'Europa si fa sentire la vicepresidente del Parlamento Europeo Pina Picerno, membro del Partito Democratico. Per l'europarlamentare, invece che vedere come il senatore un abominio nell'omosessualità, "l'unica cosa abominevole è la gente che la pensa come Malan".