Tratto da ilManifesto, di Manuela Manera
A livello individuale la dimenticanza si può perdonare. È però grave se avviene in un articolo giornalistico, perché mette in luce o una scarsa competenza o, peggio, un uso strumentale delle informazioni. Quando Ricolfi su Repubblica afferma che è sufficiente l’indicazione di Meloni di essere chiamata al maschile per “scatenare critiche, battute, ironie” compie un atto tendenzioso, tacendo la storia di un dibattito che in Italia è vivo da quasi 40 anni (A. Sabatini, Il sessismo nella lingua italiana, 1987). È reticente anche nel ricordare l’antecedente opposto, quello di Boldrini che volle per sé il femminile e fu oggetto di hate speech.
In questi ultimi anni le polemiche sono state soprattutto sulle strategie tese a garantire una giusta rappresentazione a tutte le soggettività, introducendo nuovi simboli come l’asterisco (es. ragazz*) o la schwa (es. ragazzə). Strategie in uso già da una decina d’anni in gruppi ristretti e che ora si stanno diffondendo per libera scelta di chi costruisce una comunicazione e la vuole rispettosa delle differenze. Ricolfi confonde le battaglie per il riconoscimento dell’identità di genere (quindi la scelta di come nominarsi, se al maschile, al femminile o altro) con l’opportunismo di chi ricorre al maschile solo in certi momenti.
Nel caso di Meloni – ma non è la sola – la scelta non riguarda la sua identità di genere ma un ruolo che lei interpreta in modo machista; tant’è che si rivendica donna, madre, cristiana, e in questi casi non declina al maschile. La sua è la sottolineatura, nel solco di una cultura patriarcale fortemente rivendicata, che il maschile è portatore di prestigio, il femminile no.