L’ubbidienza è comunque una virtù? Di fronte alla legge ingiusta non c’è modo di reagire legalmente? È possibile essere “ribelli secondo il diritto”, secondo la Costituzione? Appellarsi sempre e comunque alla legge è un modo per discolpare la coscienza. Le leggi, dicevano gli Antichi, sono mura che proteggono la città. Perciò, alle leggi si deve ubbidire. Lo dice, sebbene non ce ne sarebbe stato bisogno, anche l’articolo 54 della Costituzione. Ma ubbidire sempre? Anche quando la legge è la legalizzazione dell’arbitrio? Davvero la Costituzione immagina, come condizione ideale, una massa d’individui passivi, marionette mosse dai fili tenuti in mano dal burattinaio-legislatore? L’obbligo di ubbidire alla legge vale anche quando lo Stato di diritto si trasforma in “Stato di arbitrio” o “di delitto”, secondo la celebre espressione che Hannah Arendt ha usato a proposito di certi regimi dell’Europa tra le due guerre?
La questione non ha solo un aspetto morale, ma ne ha anche uno strettamente giuridico. Nei sistemi costituzionali come è il nostro, alla legge si deve ubbidienza, fino al momento in cui essa eventualmente sia abrogata o dichiarata incostituzionale. Ma, valgono oggi illimitatamente gli assiomi del legalismo: ita lex, e dura lex sed lex?
La questione ‒ non in astratto ma secondo il vigente ordinamento costituzionale ‒ non è nuova. Si è affacciata numerose volte, di fronte, per esempio, a leggi che volevano imporre ai medici degli ospedali l’obbligo di segnalare all’autorità di P.S. gli stranieri irregolari; oppure, di fronte ad analoga imposizione ai presidi di scuola di denunciare i genitori degli studenti, ugualmente irregolari.